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 2006  settembre 03 Domenica calendario

Il primo Nobel italiano dall´oblio alla rivincita. La Repubblica 3 settembre 2006. Dicono che nel salone dell´Accademia Reale di Stoccolma aleggi ancora, cent´anni dopo, lo sbigottimento di quel martedì mattina, 11 dicembre 1906, quando sull´altare più augusto del pensiero salì un medico italiano, un istologo tarchiato, coi baffi a manubrio, le piccole mani impacciate strette su un mazzetto di fogli, e osò l´inosabile

Il primo Nobel italiano dall´oblio alla rivincita. La Repubblica 3 settembre 2006. Dicono che nel salone dell´Accademia Reale di Stoccolma aleggi ancora, cent´anni dopo, lo sbigottimento di quel martedì mattina, 11 dicembre 1906, quando sull´altare più augusto del pensiero salì un medico italiano, un istologo tarchiato, coi baffi a manubrio, le piccole mani impacciate strette su un mazzetto di fogli, e osò l´inosabile. La cerimonia di conferimento di un premio Nobel è un´incoronazione laica, guai a sfidare le regole della sua sacralità. Una di queste prescrive che la prolusione del premiato sia una sorta di inno di grazie alla comunità scientifica, un´innocua e gioiosa omelia pervasa di fraternità accademica. Ma c´è un giorno da leoni anche nella biografia più timida: e nei suoi ottantatré anni di vita Camillo Golgi, pioniere della neurobiologia, il primo dei diciannove Nobel italiani (insieme a Giosué Carducci, che lo ebbe quello stesso anno per la letteratura), volle che fosse proprio quel giorno. Alle dodici in punto salì sul podio, fece un piccolo inchino a re Oscar II, poi fissò negli occhi il suo ex-aequo, lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal, suo storico rivale nella ricerca sulla struttura del cervello umano, con cui gli toccava condividere il premio: e, presa la parola, cominciò a demolirne metodicamente, implacabilmente, ironicamente le teorie «ormai fuori corso», «in declino», semplici «articoli di fede» sorretti solo da una moda passeggera. Seduto in prima fila, Cajal lampeggiava occhiate furenti, i colleghi luminari si scambiavano sguardi costernati. Ma Golgi tirò dritto inanellando sarcasmi: «...sicuro che l´eminente Collega, continuando le sue ricerche, vorrà accostarsi a questa mia opinione...». Invece no. Aveva ragione Cajal, e aveva torto Golgi. La "Teoria del neurone" dello spagnolo, che l´italiano pensava di aver sbugiardato per l´eternità, si dimostrò essere quella vincente, ed ancora oggi è il paradigma dominante delle neuroscienze. Il mite professor Golgi pagò cara la sua intemerata, di cui peraltro mai si pentì. L´incidente di Stoccolma fu archiviato negli annali del Nobel come un episodio di cattivo gusto e scarso savoir-faire. Ma la storia della scienza, più severa, cancellò Golgi dai suoi archivi. Oggi il suo ricordo è un paradosso: qualsiasi studente di anatomia, pena la bocciatura, deve conoscere l´apparato di Golgi (la struttura reticolare della materia grigia) e una catena di altri eponimi (vesciche di Golgi, sacche di Golgi, enzimi di Golgi...) che rendono quel cognome uno dei più citati in letteratura medica; ma di solito ignora l´uomo a cui appartenne. Oggi la dimensione della fama di Camillo Golgi è da local hero: il suo paese natale, Còrteno, in Valcamonica, nel ”56 ha cambiato nome in Còrteno Golgi; a Brescia gli hanno dedicato un liceo e sull´Aprica un sentiero di montagna, sua passione extra-accademica assieme al flauto traverso. «Una specie di fossile scientifico», ammette con malinconica simpatia Paolo Mazzarello, il docente di Scienze umane nella stessa università di Golgi, Pavia, che si è sobbarcata la missione di restituire (con una biografia di settecento pagine e un fitto programma di celebrazioni centenarie in partenza il 9 settembre) l´onore perduto al nostro Nobel dimenticato. A volte, magari un po´ tardi, la storia sa riconoscere meriti anche ai perdenti. E la disputa Golgi-Cajal, riletta cent´anni dopo, appare un episodio cruciale, una svolta fondamentale non solo per gli studi di neurobiologia, ma per tutta la storia della scienza. Si scontrarono, in primo luogo, due modelli interpretativi della macchina cerebrale: quello reticolare di Golgi, quello cellulare di Cajal; ma soprattutto due paradigmi epistemologici: quello olistico dell´italiano, quello riduzionista dello spagnolo. E perché no, anche due stili di ricerca: quello ottocentesco, positivista, lento e solitario del professore di Pavia, quello novecentesco, aggressivo, quasi "dionisiaco" e precocemente mediatizzato del collega di Valencia. Ma prima ancora si scontrarono due uomini, che più diversi Madre Scienza non li poteva partorire. Camillo Golgi, figlio del medico condotto di Còrteno, costruì la sua carriera come un paziente muratore, mattone dopo mattone, dalla gavetta fino alla cattedra universitaria nell´ateneo di Pavia, lo stesso di Spallanzani, animato come lui dalla «lussuria di conoscenza», austero, severo con se stesso e con gli allievi, capace di lavorare sodo, a lungo e in silenzio. Essere stato allievo di Lombroso, benché presto deluso dalle sue grossolanità ideologiche, gli fruttò il posto di direttore della Pia Casa degli Incurabili di Abbiategrasso; dove la scarsa cura allora prestata ai dementi gli lasciò il tempo di allestire in cucina un laboratorio odoroso come una bottega di profumiere. Lì, tra matracci di fucsina basica e beute di malva di Perkins, maturò la scoperta che nel 1873 lo rese per qualche decennio celeberrimo nel mondo: la "Reazione nera", fosca definizione da alchimisti per un fenomeno di splendente bellezza scientifica ed anche estetica. Con una miscela di sali d´argento e di potassio Golgi riuscì a colorare di nero le minuscole e fino ad allora diafane strutture del cervello, facendo emergere dal caos indistinto la silhouette delle cellule che, finalmente osservabili al microscopio, si rivelarono sorprendenti ragni con lunghissime gambe, stelle filamentose dai raggi lanciati in ogni direzione. Era il trionfo dell´istologia, disciplina negletta, sempre un po´ in odor di necrofilia. Con l´inchiostro chimico di Golgi, l´esplorazione topografica della macchina del pensiero era possibile «anche agli orbi». Il professore fino ad allora oscuro fu acclamato «architetto del cervello». Ma quell´architettura così elegante, come funzionava? Come registrava le percezioni sensibili, come le elaborava? Golgi, positivista, convinto della fondamentale omogeneità dell´universo e delle sue leggi, elaborò una teoria da uomo dell´era delle reti telegrafiche e ferroviarie: immaginò il cervello come un organismo fisiologicamente unitario, dalla struttura diffusa, una rete senza soluzione di continuità, che funziona simultaneamente e metabolizza i dati nel suo insieme, insomma una macchina che pensa in blocco. Ma questo suo «reticolarismo», rivoluzionario per lo stato delle conoscenze dell´epoca, Golgi lo comunicò al mondo scientifico con eccessiva calma e prudenza, quando ormai erano già in marcia i più arrembanti tifosi del neurone, quel ragnetto nero che proprio il metodo di Golgi aveva reso per la prima volta osservabile. Sostenevano, al contrario di Golgi, che il cervello è un immenso puzzle di cellule elementari, ciascuna delle quali svolge individualmente il suo compito, certo in comunicazione con le vicine, ma secondo percorsi particolari e diversi per ogni singola operazione mentale. Tra le due teorie si spalancò una autentica faglia tettonica della conoscenza: continuità contro contiguità, di qua l´idea organicista di un mondo compatto e unitario, di là la complessa interazione di un pulviscolo di elementi discreti. Scontro immane tra due secoli, due paradigmi culturali, due visioni della scienza, rimasto a lungo incerto, a lungo senza vincitori. E qui arrivò quel terribile aragonese di Cajal, contraltare perfetto di Golgi: estroverso, baldanzoso, polemico, competitivo, dalla carriera fulminea. Era di vent´anni più giovane del collega italiano: abbastanza per capire che il mondo della scienza era cambiato, da comunità di dotti era divenuto arena sportiva, dove solo chi arriva primo avrà l´alloro, e per arrivare primi non basta la pazienza da laboratorio, ci vuole l´esibizionismo dei convegni, l´abilità mediatica dell´autopromozione. Cajal scrisse un´autobiografia più che encomiastica (si vantò anche inventore del fonografo prima di Edison), e perfino un manuale sulle tecniche per ottenere il successo in campo scientifico, il cui primo suggerimento era: cercate una moglie ricca e fatevi mantenere. Golgi invece aveva sposato la bella, fedele e robusta Lina, nipote del suo mentore scientifico Giulio Bizzozzero, assai brava nel disegnare le illustrazioni per gli articoli del marito ma non doviziosa. Per vivere il professore doveva fare il professore, il medico, e siccome era d´animo buono, anche il filantropo (si occupò di malaria, pellagra, vaiolo, colera, malattie dei poveri). Mille cose lo distraevano dalla ricerca, non ultima la politica: agnostico dichiarato, arrestato a sedici anni dopo una protesta anti-austriaca, diventò moderato da adulto ma con qualche simpatia per i socialisti: tra i suoi allievi Anna Kuliscioff, che Golgi ospitò nei suoi laboratori benché la rivoluzionaria non avesse ottenuto il permesso dall´ateneo, spalleggiato da studenti socialisti, uno dei quali fui sfidato a duello da un docente ed ebbe per padrino nientemeno che Filippo Turati. Insomma la vita pubblica di Golgi, divenuto rettore a Pavia e pure senatore del Regno, era ben altrimenti affaccendata quando l´inarrestabile Cajal affondò il colpo fatale: abbracciata la "Teoria del neurone", usò il metodo della Reazione nera di Golgi per confermarla e per smontare la teoria reticolare di Golgi stesso. Ma il professore di Pavia non era uomo arrendevole. Furono anni di controversie, rivendicazioni di priorità, confutazioni e controdeduzioni, formalmente cerimoniose, sostanzialmente feroci. Finché i luminari di Stoccolma, salomonicamente, accomunarono sotto l´alloro entrambi i contendenti. Ma a Golgi, nelle motivazioni ufficiali, fu attribuito il merito di aver forgiato gli strumenti per la rivoluzione degli studi sulla macchina del pensiero; invece a Cajal quello più cospicuo di aver imbroccato la teoria giusta. Golgi l´osservatore, Cajal il pensatore: bilancia un po´ diseguale. Se l´ormai sessantenne luminare pavese la prese male, non lo diede a vedere. Si congratulò con «il celebre dotto Cajal». Ma progettò la sua rivincita. Una Reazione nera anche questa, la seconda della sua vita, molto meno elegante della prima. Forse temeva che a Stoccolma Cajal avrebbe fatto lo stesso, polemizzando con lui in pieno Olimpo della scienza (invece la sua relazione fu stranamente pacata); forse pensava davvero che la teoria del neurone, non ancora vittoriosa, fosse sulla via del tramonto. Esitò perfino: «Preferirei tenermi nascosto!», confidò a un amico prima di partire. Ma alla fine, dopo una manzoniana notte di ripensamenti, scelse di giocarsi tutto. E perse tutto. Alla stazione di Pavia, al suo ritorno, c´era la banda: ma non per lui, bensì per Giovanni Baslòt Rossignoli, campione ciclista, che viaggiava sullo stesso treno. Per i successivi vent´anni fu meno scienziato che amministratore, costretto a difendere il prestigio accademico di Pavia da colleghi milanesi intraprendenti come Agostino Gemelli o agguerriti come Luigi Mangiagalli (che non per nulla fu soprannominato Mangiagolgi). Attorno a lui il neurone trionfava. Golgi morì nel 1926, si suppone in pace con se stesso, poco prima che qualcuno cominciasse a sognare l´intelligenza artificiale, immaginandola come una somma di singole particelle indipendenti. Il secolo del computer vagiva sotto il segno di Cajal. Ma un po´ si sbagliava. «Non c´è rete senza nodi, non esistono nodi senza rete»: è con questa convinzione che Mazzarello è partito alla ricerca delle ragioni sottovalutate del suo concittadino, e le ha trovate. Negli anni di Internet, l´interdipendenza tra il locale e il globale, l´insieme e le parti è un´ovvietà: in cibernetica come in geopolitica, non c´è Cajal senza Golgi. Perfino nel campo neurologico certe ipotesi neo-reticolari tornano ad affacciarsi. Ma allora non lo si poteva immaginare. Poteva seguire la corrente e farsi da parte, l´onesto professor Golgi: invece tenne duro. Ignorando il suo motto, «Mi sono sempre pentito di aver parlato, mai di aver taciuto», ebbe l´orgoglio di perseverare nell´errore che credeva verità, e che in fondo, almeno un po´, lo era. Ne pagò il prezzo salato. Ne ottenga, un secolo dopo, l´onore delle armi. Michele Smargiassi