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 2006  settembre 03 Domenica calendario

Mantegna lo Fo così. La Stampa 3 settembre 2006. Date a Cesare quel che è di Mantegna e a Mantegna quel che è di Fo

Mantegna lo Fo così. La Stampa 3 settembre 2006. Date a Cesare quel che è di Mantegna e a Mantegna quel che è di Fo. In altre parole: date alla monumentalità eroica uno sberleffo, spalmatela d’ironia, toglietela dal marmo. Non è la storia romana né quella dell’arte spiegata agli affezionati del Bagaglino. una faccenda più seria. Se l’attore e premio Nobel Dario Fo ama Andrea Mantegna, se lo considera un diamante della pittura rinascimentale sulle cui facce è possibile scorgere in anticipo il profilo fosco di Caravaggio, il motivo è semplice: nei dipinti di Mantegna vibra un’ironia spinta fino all’umorismo e, per la prima volta nella storia della pittura, vi appare l’ombra enigmatica della metafisica. Questo dice Dario Fo. L’attore ha appena terminato di montare per Raitre il filmato della lezione-spettacolo tenuta in primavera a Mantova. Lo trasmetteranno in due serate, il 13 e il 20 settembre. Fo è sicuro che lo manderanno in onda dopo le undici di sera, «perché non bisogna esagerare con la cultura», e lo faranno come preambolo alla grandiosa, triplice mostra di Mantova, Verona e Padova, le tre città del pittore. Su quella lezione, corredata da una ventina di disegni originali, Fo ha anche pubblicato un libro, Il Mantegna impossibile edito da Panini, che sta al programma di Raitre come, nel melodramma, il libretto all’opera. Lo metterà anche in scena, mercoledì al Palazzo Te di Mantova, in uno spettacolo che inaugurerà il Festivaletteratura. Simile a un palombaro, Fo si è immerso nel mare di Mantegna e ne ha registrato la tempestosità. Biografica, ma soprattutto interpretativa. Si è insinuato nella bottega di Francesco Squarcione, il padovano manigoldo che adottò il giovane Andrea per sfruttarlo; ha rievocato l’ambiente artistico della città, dove era facile imbattersi in Paolo Uccello, in Filippo Lippi, in Donatello; ha riannodato l’amicizia tra Mantegna e il suo committente Francesco Gonzaga. Ma soprattutto Fo ha ripensato a se stesso studente a Brera, si è rivisto fra le aule dove continua a mandare bagliori violastri il Cristo morto, che l’occhio del pittore osservò dalla parte dei piedi e dal basso, in modo da far risaltare la carnalità fredda, le tracce devastanti dei chiodi, le scabrosità del legno. «All’epoca, mi ubriacavo di Mantegna», ricorda l’attore. In che modo? «Lo vedevo dappertutto. Era a Brera, al Castello Sforzesco, nei musei. Soprattutto era nelle parole dei miei maestri e io, quei discorsi, li mangiavo». Chi erano i suoi maestri? «Si chiamavano Achille Funi e Carlo Carrà. C’era anche Giorgio De Chirico, che girava spesso da quelle parti. A Brera c’era il meglio della pittura metafisica italiana». Nacque da quei maestri l’idea di Mantegna metafisico? «Si capisce. Così come nacque da loro il discorso sul Mantegna satirico. Eravamo in epoca fascista. Con la sua romanità, gli eroismi, le colonne, gli archi, Mantegna veniva considerato un simbolo del regime. A sentire questi discorsi, Fiumi si arrabbiava. Diceva che non sapevano guardare il quadro e non sapevano vedere quel che c’era dietro al quadro». Che c’era? «La crisi dialettica davanti alla tragedia della vita». In concreto? «Pensiamo ai Trionfi di Cesare. Sono nove pitture enormi, dalla linea continua, che nel Seicento finirono in Inghilterra, nel castello di Hampton Court. Mantegna non raffigura le magnificenze della storia. Racconta invece il rifiuto della gloria, un’impresa di briganti. Naturalmente pensava al proprio tempo». Il Quattrocento delle violenze e delle rapine. «Anche Roma era diventata una città saccheggiata. C’era Carlo VIII che dalla Francia si spingeva fino a Napoli, saccheggiando e rubando. Per risparmiare Firenze si fece dare miliardi. Il grande choc di Mantegna fu assistere, quasi direttamente, alla battaglia di Fornovo nel 1495. Un massacro tremendo. Si affrontarono eserciti di varie nazionalità, quelli dell’Imperatore Massimiliano, di Ferdinando d’Aragona, del Papa, di Venezia: tutto, per impossessarsi di quel che avevano rapinato i francesi». Ma come si colloca l’umorismo in questo scenario antieroico? «Mantegna capovolge la situazione di gloria, racconta il rovescio dello strapotere. Dipinge il massacro, ma anche il défilé dei rapinatori che cercano di fuggire sotto il peso del bottino nel sopravvenire dell’uragano». Mantegna passa anche per rivoluzionario della prospettiva. «Non era una rivoluzione. Era la sua forza realistica. Non a caso era amico di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca era suo allievo. Lui si reinventava le opere, dipingeva templi e archi di trionfo che non erano mai esistiti e li inseriva in un contesto metafisico. Ecco: è lui l’inventore della metafisica. Il surreale proviene dal contesto». E la luce? La famosa luce di Mantegna? « una luce che illumina dal basso. Nasce dal fatto che Mantegna abitava uno spazio d’acqua e l’acqua, riflettendo la luce, la ricreava dal basso. Insomma, è un pittore che esce dall’ovvio, guarda la società e ne fa la cronaca». Tutto questo gli era riconosciuto? « stato fra i più ammirati e copiati. all’altezza di Caravaggio, che l’ha guardato con attenzione proprio per l’ironia e per i giochi della realtà». Ciò che ha raccontato finora si trova nella lezione che trasmetterà Raitre? «All’incirca. In più si vede tutta l’opera di Mantegna e si vedono i miei disegni e gli interventi degli studenti di Brera per ridare lucentezza e completezza a certe opere appannate o smozzicate. stato un lavoraccio». E adesso? «Mi riposo qualche giorno e il 10 sarò all’Arena di Verona per recitare Mistero buffo dinanzi a una platea immensa. Ci sarà anche mia moglie Franca Rame con un testo molto coraggioso dell’americana Cindy Sheehan. S’intitola Decidano le madri per la guerra. Il titolo dice tutto. In platea siederà anche la Sheehan. Dio ce la mandi buona». Osvaldo Guerrieri