Varie, 4 settembre 2006
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SAYN-WITTGENSTEIN-SAYN Marianne zu Salisburgo (Austria) 9 dicembre 1919. «Quando a una festa arriva la principessa Marianne zu Sayn-Wittgenstein-Sayn, tutti sanno che nella sua borsetta c’è una vecchia Reflex, ma nessuno gira le spalle
SAYN-WITTGENSTEIN-SAYN Marianne zu Salisburgo (Austria) 9 dicembre 1919. «Quando a una festa arriva la principessa Marianne zu Sayn-Wittgenstein-Sayn, tutti sanno che nella sua borsetta c’è una vecchia Reflex, ma nessuno gira le spalle. Lei si guarderà intorno, scatterà decine di istantanee, scarterà quelle infelici, farà approvare quelle che le piacciono e solo allora le archivierà e, forse, le venderà. Da quando Carolina di Monaco le disse con affetto: ”Tu sei Mammarazza, la mamma di tutti i paparazzi”, lei ha fatto dello sfottò il suo nome d’arte universalmente riconosciuto: lo scrivono persino sui cartoncini d’invito o sui segnaposti nei pranzi placé. Sono ottant’anni che Marianne zu Sayn-Wittgenstein-Sayn fotografa: feste di famiglia dell’alta aristocrazia, vernissage di artisti, gare d’automobili, vacanze di ricchi-e-famosi, serate con politici e scienziati. Nel suo archivio ci sono 200 mila negativi, nei suoi scaffali centinaia di album rossi con le foto incollate, datate e titolate, e nelle librerie tre volumi: Giardini privati di Germania, Mammarazza, foto di High Society 1950-2000 [...] 300 Fotos von Marianne Fürstin zu Sayn-Wittgenstein-Sayn (editore teNeues).Cominciò a fotografare che ancora si chiamava Manni Mayr von Meinnhof - bis-bis-bis-bis nipote dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, la ”sovrana illuminata” che resse l’Impero absburgico per quarant’anni -, aveva sette anni e viveva nel castello di famiglia di Glanegg, vicino a Salisburgo: adorava una zia fotografa e voleva diventare come lei. Le regalarono un apparecchio, uno dei pochi lussi che l’austero barone padre concesse alla sua primogenita. ”Sono cresciuta nella disciplina e nell’austerità - ha raccontato in un’intervista in tivù -. Eravamo sette sorelle, le più piccole ereditavano i vestiti dalle più grandi: due dirndl per l’estate, due gonne di loden per l’inverno. La più giovane ha avuto il primo abito tutto suo quando si è sposata: era quello bianco”. Ancora oggi, che di anni ne ha 87, la principessa è austera e severa. ”Le donne devono occuparsi dei figli, non trascurare il marito e curare la casa”. E ancora: ”Per me più del titolo contano le belle maniere. Non sopporto i maleducati, non mi interessa se uno è famoso. Fotografo solo chi mi è simpatico. Se non ne vedo in giro, fotografo i miei nipoti”. Da qualche anno vive per lo più in Austria, in un casino di caccia sul lago Fuschl dove ogni anno ad agosto, una volta alla settimana e sempre a mezzogiorno, si apparecchia il tavolo più ambito di tutto il Festival di Salisburgo. Se il suo hobby è diventato un mestiere è perché un giorno l’attrice Lilli Palmer, l’amica del cuore, le disse: ”Adesso smetti di regalare le tue foto. Adesso le vendi”. Era il 1962, la principessa era rimasta vedova con cinque figli piccoli, ”nessuna pensione, nessuna assicurazione, soltanto spese”. Il principe Ludwig zu Sayn-Wittgenstein-Sayn era morto della sua passione: un incidente d’auto. Si erano conosciuti nel ’39 a Monaco di Baviera, dove lei frequentava l’Accademia d’arte e lui, giovane ufficiale, era andato a trovare i cugini. Colpo di fulmine, fidanzamento dopo pochi giorni, matrimonio due anni più tardi, durante una breve licenza dal fronte. Quando si ritroveranno un anno dopo la fine della guerra, dopo 18 mesi senza reciproche notizie, avevano trascorso insieme in tutto appena tre settimane. Lei stava dai genitori in Austria con i due bambini piccoli, lui volle tornare subito in Germania nel castello di famiglia vicino a Coblenza,’«un viaggio spaventoso, dieci giorni e undici notti in un carro bestiame a -20 gradi”. A casa trovano solo rovine: i tedeschi, in fuga dagli alleati che già avevano attraversato il Reno, avevano fatto saltare il ponte davanti al castello, distruggendolo. I principi vengono ospitati dal parroco nella canonica, meditano di emigrare in Brasile, si mettono a coltivare e vendere piante e fiori. La loro prima macchina è il furgone con cui di giorno fanno le consegne e la sera vanno a Bonn, ai ricevimenti d’ambasciata. Clic clic, lei fotografa tutti. E archivia. Il primo contratto arrivò da Burda, il settimanale che raccontava l’high society: la spedì a fotografare Juan Carlos di Borbone - ancora erede al trono di Spagna - che annunciava il fidanzamento con Sofia, Principessa di Grecia e Danimarca. Quando il principe la vide in mezzo ai paparazzi, sgranò gli occhi, la chiamò a sé - ”Manni, ma che ci fai tu qui?” -, poi le bisbigliò: ”Resta quando gli altri se ne vanno” e le offrì quelle inquadrature che nessun altro avrebbe avuto. Lei, che aveva occhio, lo fotografò sotto il grande lampadario del salone, che sembrava già una corona sulla sua testa. questo il pepe delle foto di ”Mammarazza”: nessuna posa, solo spontaneità. Tecnicamente - lo ammette lei stessa - sono un disastro. Gunter Sachs, suo buon amico, ha detto una volta: ” talmente indifferente alla tecnica che a me, fotografo attento, si rizzano i capelli in testa. Ma che risultati! come se davanti a lei si inchinassero non solo presidenti e principi, ma pure il diaframma e tutto il variopinto popolo dei filtri colorati”. Ecco Onassis in accappatoio nel garage di casa che cerca di riparare la sua auto. Maria Callas al mare che nuota col boccaglio e il barboncino in bilico sulla schiena. Sean Connery culturista sulla spiaggia di Malibu. Il principe Carlo che dipinge acquarelli. Margareth Thatcher nella cucina di Fuschl. La Regina Madre e i suoi cagnolini. Nessuno ha mai prodotto foto simili. Perché Marianne zu Sayn-Wittgenstein-Sayn non ha bisogno dell’accredito per avvicinare il jet-set: lei ”è” il jet set. Non cerca i vip: fotografa parenti e amici. ”naturalmente” sempre in mezzo all’evento. Quando il marito correva alla Miglia Miglia o sul circuito del Nürburgring, lei era ai box e scattava. L’unica: non c’erano altri fotografi. Ora quelle immagini sono storia. Come tutte le altre» (Marina Verna, ”La Stampa” 4/9/2006).