Il Sole 24 Ore 27/08/2006, pag.31 Ugo Riccarelli, 27 agosto 2006
Il gatto che salvò l’Italia. Il Sole 24 Ore 27 agosto 2006. Il 31 dicembre 1933, Borel II, centravanti della Juventus di Torino, osservò un pallone arrivare verso di lui, piazzato appena fuori dell’area avversaria
Il gatto che salvò l’Italia. Il Sole 24 Ore 27 agosto 2006. Il 31 dicembre 1933, Borel II, centravanti della Juventus di Torino, osservò un pallone arrivare verso di lui, piazzato appena fuori dell’area avversaria. Andava correndo, Borel, con una corsa goffa che ingannò il terzino del Padova: mancò la sfera e lasciò all’attaccante una piccola prateria aperta verso il portiere. Quello ci si lanciò dentro, il sorriso stirato sulla bocca, lo stesso sorriso del cacciatore quando sulla punta del mirino inquadra una beccaccia. Però nella fattispecie non c’era un uccelletto ignaro, ma un uomo nero che gli correva incontro, le mani aperte come per saltargli addosso, urlando, e soffiando come un gatto. Forse per quello, o forse fu una zolla di un campo che oggi avremmo definito "da patate", ma l’attaccante si trovò quel felino matto tra le gambe quando già aveva deciso di calciare, colpendo qualcosa che dette un suono come di zucca quando cade per terra. Una scena tragica ed esilarante insieme, perché la zucca era la testa del portiere nero, che non fece parola, finendo quel suo tuffo pazzo in una strisciata davvero uguale a quella di un fagiano impallinato. Il portiere si chiamava Aldo Olivieri, e fu portato di corsa all’ospedale, dove stette quaranta giorni nel coma: gli trapanarono il cranio per lenire la botta, per sollevare il male che premeva sul cervello e lo avrebbe fatto morire. Ma Olivieri, perduto dentro il suo sonno innaturale, per tutto quel tempo sognò, e continuò ancora a giocare. Riprese il pallone a Borel, lo fece viaggiare verso il terzino suo amico e guardò finire la partita, e poi ne cominciò un’altra e un’altra ancora. Lui era portiere, e in quel tempo sospeso e ineguale continuò il mestiere di parare, si tuffò ancora tra le gambe degli attaccanti, saltò tra i pali come solo lui sapeva fare, con un’agilità animale, con la grazia di una danza, di scatto, tanto che la gente cominciò a dire che più di un uomo, nella porta sembrava un magico gatto che all’improvviso si gonfiava, diventava enorme, le braccia aperte, le unghie sfoderate. Mentre i giorni scorrevano lenti, tra i dottori e i suoi cari preoccupati, Olivieri giocò così molte partite, cambiò più di una squadra, il Verona, la Lucchese e poi il Torino, dove giocò in modo speciale, dette spettacolo, dimostrò valore, tanto che fu scelto per la Nazionale. Alla guardia dei pali, in quell’attesa mortale, Olivieri sognò di giocarsi i Mondiali. Era l’inizio di giugno, l’anno era il ’38, e l’Italia andò in Francia: c’era ancora una sfida, contro i nostri campioni, contro i primi del mondo. Con Meazza, Ferrari, Locatelli, Biavati, Colaussi e Andreoli, con Piola e con Rava, Olivieri a difendere la porta. Olivieri disteso, sognava. Il 5 di giugno si giocò una partita: la Norvegia, per i nostri, avrebbe dovuto essere un boccone. La Norvegia era niente, li avevamo battuti da neanche un paio di anni, e noi eravamo i campioni e quelli soltanto vichinghi che non avrebbero potuto ferirci, recarci dei danni. La gloria dei nostri, forse la sicurezza di una serie ormai lunga di buoni successi, o forse qualche altra nascosta ragione perché il calcio è mistero, è gioco di piedi ma anche di testa e di convinzione, ma il 5 di giugno si ribaltarono le parti e i nostri parvero a tutti dei pulcini sperduti, mentre i biondi vichinghi, per niente battuti, si gettarono all’assalto come undici matti. La nostra difesa non sapeva che fare, i giocatori si guardavan l’un l’altro stupiti. In un gioco di squadra è come se una mente comune comandi undici teste, decida le mosse. La paura, uno stato d’animo basso, e i campioni che altre volte sarebbero stati titani, all’improvviso si ritrovarono undici nani, impotenti, barchette nella bufera di onde che li sbatacchiava da tutte le parti. Undici uomini, tra i migliori, che di colpo si sentono nulla. In questo il calcio ha una forza speciale, è una magica ruota che può rovesciare il pronostico, ogni previsione. Non c’è sicurezza che dietro a un pallone non possa celarsi un’insidia banale, perché essere forti, in undici, è una cosa complessa, un’arte sottile, un equilibrismo, ma per sentirsi sconfitti basta solo un momento, e allora è il terrore, il sospetto che quel vento imprevisto ti porti lontano, cancelli i tuoi sogni, le tue sicurezze. qualcosa di buio, è una stretta alla gola, una salita dura. Una fredda paura. Soltanto Olivieri manteneva la calma. Dal sonno profondo dal quale sognava il nostro portiere non aveva incertezze. Giocava in un sogno e dunque parava, fermava ogni tiro, faceva prodezze su Brustad, e su Isaksen, che almeno tre volte gli arrivò solo davanti. Sfoderò quel suo salto felino che applaudirono in tanti, un gonfiarsi improvviso. Quando arrivi all’attacco, e veloce, leggero, sei al di là della linea della loro difesa, è il portiere che trema, è per lui la paura perché lui è un puntino, e la porta una piazza, sette metri alle spalle da salvar con le mani. Ma Olivieri sognava e nel sogno era un gatto, era un magico gatto, scattante. Allargava le braccia e prendeva i palloni, si tuffava su Brustad e gli rubava la palla, e volava su un tiro di Brynhildsen, lo levava dall’angolo in alto. Poi correva contro il tiro di Isaksen, improvviso, dopo un dribbling bruciante, lo agguantava proprio come fa un gatto quando gioca a catturare una palla. Fu Olivieri, quel giorno, a salvare l’Italia, a tenerla su, a galla, nella tempesta di quella partita che altrimenti sarebbe stata una beffa: i campioni sconfitti dal niente. Eresia, fantasia, sberleffo eterno, qualcosa che comunque il futuro avrebbe serbato, poiché appena un trent’anni più tardi un nordcoreano, un dentista, ci avrebbe spedito all’inferno. L’Italia, dunque, arrivò fino in fondo, proprio grazie alle parate di un gatto, e poi vinse in finale, rotondo. Vinse il suo secondo campionato mondiale. Olivieri continuò nel suo sonno, quei quaranta giorni di sogni per diventare campione, e ancora, il portiere della grande partita di Highbury, con il Resto del Mondo, a mostrare davvero agli inglesi tutto quello che un gatto riesce a parare. Quaranta giorni passarono, e con quelli anche il coma. Una mattina di febbraio, Olivieri finì di giocare. Si svegliò, era stanco, confuso, e riuscì appena, a stento, a parlare: "Che stanchezza - disse - Dio mio che fatica". Poi i suoi cari, le loro risate, i sorrisi dei medici che arrivarono in fretta, a controllare il malato, il suo risveglio così portentoso. Olivieri tornò sopra i campi a giocare, col Verona, col Padova, e poi la Lucchese, il Torino e la Nazionale. Contro la Norvegia, in una partita a Marsiglia, salvò la squadra con parate impossibili, in una giornata sensazionale. Una partita di sogno, scrissero i giornali, una serie infinita di eccezionali parate, qualcosa che sembrava impossibile da potersi fare. Così ricordano i testimoni, così raccontano le cronache e tutti quelli che, contenti, dicevano che nella porta della Nazionale giocava un gatto magico, fenomenale. Alla fine del match, uscendo dal campo tra i complimenti dei compagni e gli osanna della gente che contenta rideva, l’allenatore, il grande Pozzo, si avvicinò al portiere e gli allungò una mano e disse: "Grazie Aldo, questa partita ci porterà senz’altro alla vittoria finale". Olivieri lo ascoltò, e ringraziandolo con la modestia propria della persona educata che era, per un istante si sentì confuso, turbato, come succede quando ti risvegli il mattino dopo aver troppo sognato, e fai fatica a capire. La vita, il sogno, la realtà che fugge, qualcosa che rotola in discesa e non può essere fermato. Poi ricambiò la stretta di mano, e gli regalò un largo sorriso, perché si rese conto che, in fondo, tutto era già stato. La carriera 1 Aldo Olivieri nacque il 2 ottobre 1910 a San Michele Extra (Verona). Il suo incontro con il calcio avvenne per caso, dopo aver iniziato nel mondo dello sport con il ciclismo. Il suo debutto in serie B avvenne nel 1929, con il Verona. Nel 1933 passò in serie A con il Padova dove giocò solo otto gare a causa di un grave infortunio alla testa patito contro la Juventus. Dopo solo un anno di convalescenza riprese a giocare con la Lucchese, in serie B, per poi tornare in A nel 1935-36 con il Torino, dove vinse una Coppa Italia. Dopo 172 partite in maglia granata, nel 1942-43 (il primo anno del "Grande Torino") si trasferì al Brescia, in serie B, dove chiuse la sua carriera. Negli anni 50 allenò l’Inter (secondo posto nel 1950-51, terzo nel 1951-52) e la Juventus (secondo posto nel 1953-54 e settimo nel 1954-55). Il personaggio 1 Aldo Olivieri era un uomo dal carattere schivo, taciturno. In campo aveva grande colpo d’occhio, estrema sicurezza nelle uscite, presa ferrea. Usava molto lo scatto e il colpo di reni, così da somigliare a un felino rapidissimo. Di grande coraggio, nel 1933 rimediò un colpo alla testa durante un’uscita, rimanendo in coma per 40 giorni: ritornò presto alle gare, giocando con una placca di metallo sul cranio. Credendolo morto, qualche anno fa un paese del veronese decise di dedicare uno stadio alla sua memoria. Olivieri ringraziò, ma fece notare l’impossibilità di accettare essendo all’epoca ancora vivo e vegeto. Morì a Lido di Camaiore (Lucca) il 5 aprile 2001. Campione del mondo 1 Il nome di Olivieri resta legato all’Italia guidata da Vittorio Pozzo che vinse i mondiali del 1938, in Francia. La formazione tipo lo vedeva insieme a Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari e Colaussi. Memorabile l’ottavo di finale di Marsiglia contro la Norvegia vinto dall’Italia per 2 a 1 ai tempi supplementari, durante il quale le parate di Olivieri furono determinanti. Ugo Riccarelli