Corriere della Sera 31/08/2006, pag.35 Sergio Romano, 31 agosto 2006
L’Italia e il Trattato di pace: un errore di calendario. Corriere della Sera 31 agosto 2006. La presunzione di rivendicare all’Italia, nella conferenza di Parigi del 1946, il ruolo di potenza vincitrice sarebbe stata assurda
L’Italia e il Trattato di pace: un errore di calendario. Corriere della Sera 31 agosto 2006. La presunzione di rivendicare all’Italia, nella conferenza di Parigi del 1946, il ruolo di potenza vincitrice sarebbe stata assurda. Ma non le sembra che i ministri delle potenze alleate e i loro rappresentanti, con la possibile eccezione del segretario di Stato americano Byrnes, siano andati oltre adottando decisioni eccessive nei nostri confronti? Passi per le colonie africane, passi per il Dodecaneso e passi pure per l’Albania. Ma quel «pasticcio» sull’Istria? Confermando la linea Wilson ci avrebbero riconosciuto almeno l’onore delle armi. Marco Piselli Caro Piselli, la porta attraverso la quale l’Italia dovette passare durante la conferenza di Parigi per il trattato di pace era molto stretta, e nessuna diplomazia avrebbe potuto allargarla. Avevamo collaborato con gli Alleati nell’ultima fase del conflitto e avevamo dichiarato guerra ai nostri vecchi amici (Germania e Giappone). Ma avevamo già incassato i benefici della cobelligeranza ottenendo che lo stato di occupazione, dopo la soppressione della Commissione alleata di controllo, cessasse nel gennaio del 1947. A Parigi, dove venimmo processati insieme ad altri vecchi alleati della Germania (Bulgaria, Finlandia, Romania, Ungheria), i giochi erano fatti. Anche coloro che erano pronti a tener conto delle nostre esigenze, come gli Stati Uniti, non potevano ignorare, che vi erano altri creditori. La Grecia voleva Rodi e il Dodecaneso, che l’Italia aveva strappato alla Turchia durante la guerra libica del 1911. La Jugoslavia di Tito era una potenza vincitrice e non intendeva abbandonare i territori istriani e dalmati che aveva conquistato negli ultimi mesi del conflitto. L’Albania era ormai comunista e godeva della protezione sovietica. L’Urss era comprensibilmente affamata di indennizzi e si fece pagare, tra l’altro, con una parte della flotta italiana. Fu un miracolo, dovuto ad Alcide De Gasperi, se riuscimmo a conservare, grazie a un accordo bilaterale con l’Austria, la sovranità sull’Alto Adige. Per Trieste la soluzione fu la creazione di un Territorio libero che, grazie al cielo, non riuscì mai a decollare. Per le colonie invece la partita non si giocò a Parigi, ma più tardi, all’Onu, in condizioni internazionali alquanto diverse. Il maggior motivo di rammarico, per noi, non è il trattato, che in quel momento non poteva essere diverso, ma la data della sua firma. Sarebbero bastati un dissenso, una sospensione dei negoziati, un aggiornamento, uno dei tanti granelli di polvere che possono rallentare o inceppare la macchina della diplomazia. Se la trattativa, per una qualsiasi ragione, fosse stata interrotta e una commissione fosse stata incaricata di approfondire una questione controversa, la ripresa della conferenza avrebbe coinciso con una fase nuova della politica mondiale. Dia un’occhiata, caro Piselli, al calendario internazionale dei mesi seguenti: scoprirà che il treno della guerra fredda comincia a correre, in quel periodo, sempre più rapidamente. Il 12 marzo Truman annunciò al Congresso che gli Stati Uniti avrebbero garantito aiuti economici e militari a due Paesi (Grecia e Turchia) minacciati dal comunismo. Il 5 giugno il segretario di Stato americano George Marshall annunciò all’università di Harvard il piano per la ricostruzione dell’Europa che avrebbe portato il suo nome. Fra luglio e dicembre l’Urss accelerò la creazione di regimi comunisti in Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania e resuscitò sotto un nuovo nome (Kominform) il vecchio Komintern. Il nostro trattato di pace fu negoziato e firmato in quella zona grigia, tra la fine del conflitto e l’inizio delle guerra fredda, in cui gli Anglo-Americani non avevano ancora rinunciato a cercare con i sovietici soluzioni comuni per l’assetto politico e territoriale dell’Europa. I sacrifici dell’Italia furono fatti, quindi, sull’altare di un progetto destinato a fallire. Se la firma fosse stata ritardata di qualche mese, alle potenze occidentali quei sacrifici sarebbero parsi, oltre che ingiusti, inutili. Sergio Romano