La Repubblica 30/08/2006, pag.15 Nello Ajello, 30 agosto 2006
Giolitti, l´antico apostata "Quel dramma ora è più lontano". La Repubblica 30 agosto 2006. Antonio Giolitti aveva ragione nel 1956, quando criticò - a differenza del Pci di Palmiro Togliatti, che ad essa plaudì - l´invasione dell´Ungheria da parte dell´Unione sovietica
Giolitti, l´antico apostata "Quel dramma ora è più lontano". La Repubblica 30 agosto 2006. Antonio Giolitti aveva ragione nel 1956, quando criticò - a differenza del Pci di Palmiro Togliatti, che ad essa plaudì - l´invasione dell´Ungheria da parte dell´Unione sovietica. In una lettera inviata a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni, e brevemente riportata dall´Unità di ieri, il capo dello Stato non si limita ad evocare l´evento, ma esprime una «riflessione autocritica», ricordando che le posizioni assunte in quel frangente dal vertice del Pci erano da lui condivise. Insomma, così afferma il presidente Napolitano, Giolitti criticando le posizioni del partito comunista nel quale militava, era nel giusto, mentre io, allora - mezzo secolo fa - sbagliai insieme al mio partito. E´ un riconoscimento «doloroso» che si estende anche a Pietro Nenni e a gran parte del Psi (ecco spiegata la lettera a Tamburrano), che nell´autunno del 1956 espressero critiche analoghe a quelle che manifestò Giolitti nei riguardi del Pci e del suo segretario Palmiro Togliatti. Giolitti, che ha superato i 91 anni, è nella sua casa di vacanze, a Cavour. Non ha letto L´Unità. Ma certo non gli sfugge l´importanza della notizia che gli riferisco. E accetta di rievocare al telefono quella vicenda che lo vide protagonista. E´ l´8 dicembre 1956, il Pci celebra a Roma il suo VIII congresso. Dall´invasione dell´Ungheria è passato un mese e mezzo, una stagione assai difficile per il partito di Togliatti, tra il fermento che circola nelle sedi culturali, il dissenso espresso da figure eminenti come Eugenio Reale e Fabrizio Onofri - neppure invitati al congresso, ricorda Giolitti - e il diniego opposto da scrittori del rango di Italo Calvino (per fare un solo esempio). Prima che Giolitti prendesse la parola, vibranti riserve sulle posizioni del partito erano state espresse da Furio Diaz, celebre storico ed ex sindaco di Livorno. Ma il compito di dare una prospettiva unitaria a queste critiche sarà assunto proprio dall´allora quarantunenne Antonio Giolitti. «Per noi», avrebbe poi raccontato Gianni Rocca, presente al congresso in quanto delegato, «era come se lui solo si fosse preso l´incarico di lasciare ai leader e agli astanti una testimonianza collettiva di dissenso». E lo stesso protagonista rammenta che, essendo allora la sua figura poco nota, il Corriere della sera aveva sentito il bisogno di presentarlo ai lettori, più o meno con queste parole: «L´onorevole Giolitti è un giovane quarantenne, alto, bruno, elegante. Si dice che il suo nome interessava ai comunisti, che vogliono dirsi eredi del Risorgimento e del liberalismo. Si dice anche che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». «Fosse», sottolinea Giolitti. «Ormai non lo ero più. Non lo sarei più stato». A sentirlo rievocare da lui, quel lontano dicembre assume di nuovo il calore di un trauma. Senza enfasi - ma a detta di tanti testimoni d´epoca, neppure in quel frangente clamoroso l´enfasi si affacciò nell´oratoria giolittiana: ognuno è come è, magari per sempre - Giolitti cita il se stesso di allora. Per esempio, quando esordì rilevando una contraddizione nelle tesi del segretario comunista e dei suoi seguaci più ferventi: «Non si può sostenere che gli errori e i delitti denunziati al XX congresso del Pcus non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista, e allo stesso tempo definire legittimo, democratico e socialista un governo come quello contro il quale è insorto il popolo di Budapest il 23 ottobre». O allorché egli escluse che, esprimendo ciascuno le proprie idee, si favorisse il nemico di classe. «Molte volte, al contrario», obiettò, «il gioco dell´avversario lo fa chi tace». O infine quando nel suo intervento affiorò una documentata denuncia: «Abbiamo visto combattere e sradicare senza pietà le opinioni di quei compagni - e io sono fra costoro - che hanno manifestato dubbi e dissensi in merito alla definizione di controrivoluzionaria data alla rivolta popolare d´Ungheria». Un´altra scena che resta incisa nella memoria è impersonata da Giuseppe Di Vittorio, che invita Giolitti a «rivedere criticamente il proprio atteggiamento». Ma quello che parlava all´VIII congresso, ora egli aggiunge, «era un Di Vittorio turbato dal suo stesso dissenso poi quasi rientrato. Un uomo e un combattente ormai troppo stanco per aver coraggio». Si può essere allergici al protagonismo quanto si vuole - faccio notare a Giolitti - ma dire a Togliatti che per il Pci «si tratta, non di continuare e migliorare, ma di cambiare e correggere; e di cambiare gli uomini che non si possono correggere», è un qualcosa che nel Pci non s´era mai sentito. Giolitti, dall´altro capo del telefono, acconsente. L´antico apostata gradisce come merita la mossa di Napolitano. Parla con piacere della visita che il presidente gli fece nel maggio scorso, fresco di elezione al Quirinale: «Gentile, aperto, cordiale». Rievoca i tempi, non poi tanto remoti, nei quali - dopo essere stato per decenni un battistrada sulla «via del riformismo», essere assurto a sinonimo della Programmazione e aver vissuto da protagonista la travagliata vicenda del centrosinistra - egli scorse nella gestione craxiana del Psi un´intolleranza quasi altrettanto grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Per un lungo periodo ancora, ricorda, cercherà «di mettere bene i piedi con qualche sdrucciolone, sulle vie della politica». Il suo è stato, in fondo, - anche quando nel giugno del 1987 venne eletto senatore nelle liste del Pci - un tentativo (sono parole sue) di «passare dall´illusione dell´utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire «il rapporto sempre problematico fra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici. Poi, man mano che l´età avanzava, s´era sentito sempre più «un senzatetto di sinistra». Mentre gli parlo, Giolitti mi dà il senso di aver riconquistato un´identità, semmai l´avesse persa davvero. Le sue utopie di «timoroso riformista» (così ama definirsi) diventano una lezione che va onorata in alto loco. C´è un uomo, classe 1915, che ha lungamente operato in politica. Con coraggio. Ecco, per lui il presente ha ancora in serbo un dono. Nello Ajello