La Repubblica 27/08/2006, pag.31-33 Natalia Aspesi, 27 agosto 2006
Benetton. La Repubblica 27 agosto 2006. Cortina d´ampezzo. L´azienda che ha colorato il mondo compie quarant´anni e il suo fondatore, in attesa della gran festa del 10 ottobre al Centre Pompidou di Parigi, sta per raggiungere la Siberia, la Bielorussia, il Kazakistan, alla ricerca degli ultimi luoghi sulla terra non ancora invasi da quei rutilanti colori, da quei vestiti giovani, da quel celebre marchio
Benetton. La Repubblica 27 agosto 2006. Cortina d´ampezzo. L´azienda che ha colorato il mondo compie quarant´anni e il suo fondatore, in attesa della gran festa del 10 ottobre al Centre Pompidou di Parigi, sta per raggiungere la Siberia, la Bielorussia, il Kazakistan, alla ricerca degli ultimi luoghi sulla terra non ancora invasi da quei rutilanti colori, da quei vestiti giovani, da quel celebre marchio. Agli inizi dell´avventura Luciano Benetton aveva trent´anni, era un giovanotto dall´aria severa e forse un po´ triste, capelli neri lisci, occhiali da vista scuri come li portano i timidi, rigidi abiti manageriali per affrontare la foresta sconosciuta dell´imprenditoria italiana di allora, sapendo già che quei confini gli sarebbero stati stretti; e che oltre c´era l´Europa, c´erano i continenti a lui ignoti, che aspettavano di essere conquistati. Oggi il presidente del Gruppo Benetton è uno di quei nuovi settantenni che cancellano le vecchie e ormai obsolete regole degli anni, vivono il presente con l´intensità di una sapiente giovinezza illimitata, mantengono fermamente il potere, pianificano un futuro senza fine. E impegnano con disinvoltura e distacco la loro immagine fisica per confermare questa idea di energia, di potere, di successo sconfinato. Un´immagine, la sua, che col tempo ha perso la gravità degli inizi di carriera, è diventata leggera e leggiadra: i capelli candidi, ariosi e lunghi, la figura snella e impaziente, gli occhiali quasi invisibili che non nascondono più gli occhi azzurri, e un modo di vestire molto Benetton, anche quando il gran cappello da cacciatore e la camicia a quadri sono casual americani. Nelle foto da bambino, figlio della lupa, marinaretto, in mutandine, canottiera e valigino della merenda, non sorride mai, imbronciato, pensieroso, insicuro, come se la vita di allora, semplice, angusta, forse difficile, non gli andasse per niente bene, e già sognasse altro, senza sapere cosa. Poi l´ha saputo, e con sicurezza, e infatti da tempo sorride sempre, candidi denti ovviamente perfetti, e in modo addirittura smagliante nelle occasioni ufficiali, quando lo ritraggono assieme alla sorella Giuliana e ai fratelli Gilberto e Carlo, con addosso magliette e jeans della casa, oppure, per eventi più formali, lo smoking classico portato con sommessa ironia. I sorrisi saranno trentotto nella copertina di Vanity Fair in occasione della mostra parigina: una foto davvero unica, perché i tanti Benetton non si ritrovano mai tutti insieme, se non forse una sola volta l´anno, quando però manca sempre qualcuno. In più il primogenito Luciano ha sempre sfuggito il ruolo di patriarca, che non sente come suo, e già essere padre di cinque figli, quattro dalla moglie Teresa, uno da Marina Salamon, («ma l´amore tra industriali non è una grande soluzione»), e nonno di dieci nipotini, non lo commuove più di tanto. Ma per amore del marchio ha fatto anche questo: una fotografia con tutti i Benetton, i quattro capostipiti, i loro figli, quindici, i figli dei figli, diciassette, nessun coniuge. Di tutta questa folla familiare, solo Alessandro, secondogenito di Luciano, compagno di Deborah Compagnoni, padre dei piccoli Tobias e Agnese e presto di un terzo figliolino, occupa un ruolo importante nel gruppo Benetton, come vicepresidente. Alla vigilia della mostra al Beaubourg che celebrerà i quarant´anni del marchio, Luciano Benetton racconta la storia di uno straordinario successo imprenditoriale fatto di idee nuove, gusto del rischio e della provocazione ma, come si sa, gli interessi di una famiglia valutata cinque miliardi di euro dal mensile economico americano Forbes sono molto vasti, vanno ampiamente al di là dei 120 milioni di capi di vestiario che ogni anno si irradiano in più di 5000 negozi in 120 paesi. Usciti dalla Benetton per decisione comune nel 2003, i fratelli si sono divisi le competenze nell´impero di famiglia, e adesso un figlio per uno - Franca, 38 anni, figlia di Giuliana; Christian, 34 anni, figlio di Carlo; Sabrina, 31 anni, figlia di Gilberto; oltre naturalmente ad Alessandro, tutti carichi di lauree e master prestigiosi - sono diventati consiglieri delle cassaforte di casa, la Edizione Holding, che come si usa adesso controlla di tutto e con diverse fortune non sempre vincenti. Tra cui, ma non solo, le partecipazioni in Telecom, Autostrade, Autogrill, Grandi Stazioni, più il cento per cento di due immense tenute, Maccarese in Italia e Compania Tierras Sud in Patagonia: 900mila ettari, 16mila bovini, 260mila pecore, un milione e 300mila chili di lana esportata in Europa, risentimenti e contrasti con la popolazione locale, scambio di lettere con il premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e alla fine una donazione di terreno ai contadini mapuche, con una lettera firmata Luciano Benetton, «...La nostra donazione non ha e non potrà mai avere l´ambizione finale di accelerare i ritmi quotidiani del tempo e della storia. Ma può essere una piccola luce per guidarci nel buio, passo dopo passo, lungo il sentiero tormentato del progresso socialmente responsabile». Sono le grandi ricchezze di oggi, saldamente disperse in mille rivoli, e Luciano Benetton è di quelli che ne godono appieno ma non le ostentano o peggio ancora le sprecano negli orrori dell´estate di gusto celebrity: ha trascorso le sue vacanze a Cortina, nel grande fienile del Seicento che apparteneva all´architetto Vietti e che della sua monumentale antichità conserva i pavimenti, i soffitti, le pareti di rustico legno. Con la più giovane e vivace compagna degli ultimi dieci anni, Laura Pollini, amministratore delegato di Fabrica, il centro di ricerche sulla comunicazione nella bellissima sede di Ponzano Veneto costruita da Tadao Ando, fa colazione in pieno sole su un tavolinetto nel retro della casa, servito da un omino in maglietta, guardando il grande prato su cui si affacciano altre case. A Cortina non ci sono steccati, né cancelli, tutto è libero, tale è il mito elegante del luogo che nessuno, neppure Benetton, teme intrusioni, sorprese, molestie. Al potere finanziario che la famiglia ha accumulato, Luciano guarda con apparente distacco, perché in questo momento è molto più impaziente di riprendere il suo girovagare di lavoro, per rinsaldare il gruppo Benetton su nuovi indispensabili mercati. «Ci vado io stesso, non solo perché gli eventuali soci e clienti sono più contenti, ma perché mi diverto, mi affascina addentrarmi in queste nuove realtà. In Siberia per esempio non sapevano nulla di mercato, adesso tutti vogliono commerciare, abbandonano le professioni di medico, di avvocato, e aprono negozi. Vogliono arricchirsi, come tutti, ma non sempre si incontrano persone affidabili. per questo che in certi paesi non promuoviamo più il franchising, i negozi li compriamo noi nei punti strategici e li affidiamo a gestori-soci. Per evitare, come è capitato, che quando il negozio è avviato, arriva un altro marchio, offre più soldi e noi ci ritroviamo senza punto vendita». Eppure è stato proprio Luciano Benetton a inventare il franchising, il negozio di proprietà di altri cui affidare il marchio e vendere il prodotto, ed è stato questo l´inizio del successo. Lui è forse uno degli ultimi imprenditori di grande fortuna che hanno cominciato dal nulla: la sua leggenda dice che, nato a Treviso nel 1935, primogenito di Leone che mantiene la famiglia noleggiando automobili e biciclette, resta orfano di padre a quattordici anni e per questo lascia la scuola. Va a lavorare, commesso in un negozio di tessuti, e qui comincia a innervosirsi perché nella povertà dell´economia di quegli anni, sente che c´è bisogno di qualcosa di nuovo per accendere il mercato. «C´è stato un fatto determinante per me, e sono state le Olimpiadi del 1960 a Roma. Io amavo molto il canottaggio, avrei dato qualunque cosa per partecipare alle gare, ma mi accontentai di andarci come spettatore. Fu una emozione inimmaginabile: venivo dalla provincia di allora, chiusa e ancora arretrata, e lì in mezzo a quella folla immensa venni a contatto col mondo, mi ritrovai tra gente di ogni razza e colore, tra le bandiere di decine e decine di nazioni. Avevo venticinque anni e mi prese una grande voglia di far parte di quei colori, di quelle bandiere, di quella moltitudine, del mondo. Era tutto da conquistare, bastava farsi venire un´idea, sperare nella fortuna, non temere nulla». L´idea venne da un maglione che la sorella Giuliana gli aveva confezionato: non aveva nulla di speciale, se non che era giallo, e i giovanotti non portavano allora maglioni colorati. Quindi lui suscitava curiosità, e tutti lo guardavano e gli chiedevano come mai avesse osato e gli amici alla fine ne chiesero uno simile: «Capii in quel momento che attirare l´attenzione, imporre un´immagine soprattutto se imprevista, fare eco, suscitare discussioni, poteva essere una strategia imprenditoriale vincente». Non se l´è mai dimenticato, arrivando per una delle tante campagne Benetton, seguite da reazioni scandalizzate, a farsi fotografare nudo. Era il 1993, Luciano aveva cinquantotto anni ed era senatore della Repubblica eletto per il partito repubblicano; sfrontato, coraggioso e sorridente, non un pezzo di stoffa sul corpo, si protesse soltanto con la scritta gigante trasversale, naturalmente in inglese, «I want my clothes back» e poi «Empty your closets». Era una delle tante campagne pubblicitarie concordate con Oliviero Toscani, questa volta a scopo umanitario e in collaborazione con la Caritas svizzera, la Croce rossa e il Crescente rosso di Ginevra, un piano mondiale di ridistribuzione di capi di abbigliamento usati da destinare alle popolazioni indigenti. «Ridammi i miei vestiti» e «Vuota i tuoi armadi» ebbe molto successo, forse perché non si era mai visto un imprenditore nudo, e alla fine i contenitori posti nei negozi Benetton raccolsero 460mila chili di indumenti. L´immediato successo commerciale dei primi anni era arrivato con idee nuove, nate da una intuizione imprenditoriale ma anche dalla natura parsimoniosa di Luciano. La prima idea fu aprire negozi nei centri storici o comunque nei luoghi più eleganti delle città, però in franchising, cioè a spese degli altri. E poi, illuminazione semplice, pratica e del tutto nuova, produrre capi di maglia di lana color naturale e poi tingerli al momento, secondo le richieste, in una gamma di colori vastissima, almeno una sessantina. Quasi vent´anni dopo, negli anni Ottanta, con più di 1.000 punti vendita in Italia, 250 in Germania, 280 in Francia, 100 in Inghilterra, 25 in Olanda e in Belgio, il marchio consolidato come simbolo del vestir giovane, Luciano cominciava a divertirsi meno. Che soddisfazione c´è a vendere milioni di magliette se però nessuno ne parla più, non fanno più notizia, sono tornate alla loro natura di semplice anche se fortunata merce, senza contare che ci sono ancora continenti, mondi, non ancora benettonati? Racconta Oliviero Toscani: «Una sera, mentre assistevo al parto di una delle mie cavalle Appaloosa, mi telefona Luciano. Il puledro nacque da lì a poco e in quella mezzanotte di buon auspicio nacque anche una straordinaria collaborazione». Un sodalizio artistico-mercantile che univa due personaggi appassionati del potere dell´immagine e del piacere di far notizia, di sorprendere e provocare. Ma ancor prima dell´arrivo in azienda di Toscani, il marchio negli anni Settanta già tendeva all´anticonformismo (fotomontaggi di Jimi Hendrix, Andy Warhol con addosso la nuova linea Jean´s West, una Laura Antonelli seminuda e un Salvador Dalì che attacca un manifesto in favore dell´aborto). Dice Luciano: «I giovani avevano idoli trasgressivi, contestavano, occupavano le università, sognavano di cambiare il mondo. Ero giovane anch´io, e non sentivo la differenza di pensiero: e poi quei ragazzi mi piacevano perché li vedevo tutti come potenziali clienti». La rivoluzione vestita, colorata Benetton. «Anch´io contestavo, nel mio caso la categoria imprenditoriale, che non aveva attenzione per i lavoratori. Io ce l´avevo, e anche se abbiamo avuto rapporti burrascosi coi sindacati rispettavamo le regole del gioco, erano la controparte con cui trattare. E poi io mi sentivo davvero uno di loro, uno degli operai, e alle sei di mattina arrivavo in fabbrica con la Due cavalli per il primo dei tre turni. Lavoravamo tutti come pazzi, ma non bastava: sino al 1978 non riuscimmo a soddisfare tutte le richieste perché lo sviluppo era fino al settanta per cento all´anno. Gli altri imprenditori ci guardavano male, come alieni della categoria. Quando nel 1963 costruimmo la prima fabbrica a Ponzano Veneto, installammo subito l´aria condizionata per tutti, ed era una cosa rivoluzionaria. L´entusiasmo era tanto, non potevamo spendere molto, ma pensavamo a una struttura non usuale, più intelligente, più ottimista del solito capannone. Volevamo farci conoscere, anche attraverso l´architettura, e infatti affidammo il progetto a Tobia Scarpa, che conoscevo perché era di Motebelluna, aveva vent´anni, era ancora studente e, malgrado la fama del padre, poco costoso, in più condivideva con me il piacere del rischio. In questo caso un´unica trave vuota di cemento di ottanta metri che sosteneva tutta la costruzione. Gli esperti dissero che non sarebbe rimasta in piedi, e invece è ancora lì, tuttora moderna e affascinante». Con Oliviero Toscani, e per i diciotto anni della loro collaborazione, ogni campagna pubblicitaria divenne uno shock, uno scandalo, una rivoluzione permanente nel modo di comunicare. «Volevamo una pubblicità nuova, moderna, soprattutto internazionale: eravamo ormai così solidi da poter osare. Certo, quando cominciarono ad arrivare le prime proteste, rimanemmo male, pensammo persino di smettere e chiedere scusa. Ma capimmo che si trattava di posizioni razziste, e noi il razzismo non potevamo accettarlo. E poi, dal punto di vista degli affari, quelli che protestavano non erano il nostro pubblico, non erano interessati al nostro prodotto, quindi dovevamo andare avanti». Infatti più la gente si indignava, i giornali polemizzavano sino a rifiutare l´inserzione e il gran giurì della pubblicità stigmatizzava (ci furono persino picchetti fuori dai negozi inneggianti al boicottaggio) per la suora che bacia il pretino, per il neonato bianco sul seno nudo di una donna nera, per quella specie di pietà caravaggesca attorno a un malato di aids morente, più Benetton vendeva, prosperava, ingigantiva. Di anno in anno, scomparso il prodotto dalla pubblicità, solo in un angolo un tassello verde con la scritta "United Colors of Benetton", la dispettosa genialità di Toscani e la partecipazione ideologica e mercantile di Luciano continuarono a provocare con la brutalità del reale: nascita, sesso, dolore, morte, razzismo, pena di morte, antimilitarismo, pacifismo; il neonato attaccato al cordone ombelicale, i preservativi, le carrette del mare grondanti clandestini, il delitto di mafia, i bambini lavoratori, il cimitero di guerra, la serie di sessi femminili e maschili (opera invitata in gigantografia alla Biennale d´arte veneziana nel 1993, rifiutata da tutti i giornali tranne Liberation). Sempre più scomoda, beffarda e brutale, la pubblicità dell´azienda affronta tabù impensabili per la comunicazione commerciale: ecco la divisa insanguinata, vera, di un soldato bosniaco morto in guerra, donata dal padre (1994); ecco i ragazzini disabili di un istituto bavarese (1998); e l´ultima campagna, quella che suscita massimo scandalo e probabilmente incrina il rapporto tra Benetton e Toscani: i ritratti di 28 condannati nel raggio della morte di un carcere americano (2000). I magazzini Sears che hanno 400 negozi negli Stati Uniti rompono il contratto di distribuzione; un intero stato, il Missouri, fa addirittura causa (poi rientrata) all´azienda. L´imprenditore chiederà pubblicamente scusa ai parenti delle vittime di quei criminali, mentre Toscani respinge ogni accusa. Il genio della pubblicità e il genio dell´imprenditoria si separano, e da gentiluomini, eviteranno polemiche. Anche adesso: « stata una decisione comune. Era finita una stagione, e non solo tra noi: stava cambiando la società, cambiavano i giovani, il modo di consumare e i desideri. Noi dobbiamo interpretare il mondo che viene non come lo vorremmo ma come è, per vendere bisogna essere contemporanei». Poi oggi i problemi sono altri, giganteschi: Benetton era il solo marchio internazionale che assicurava abbigliamento di qualità a buon prezzo, adesso la concorrenza è durissima. «Ma il nostro sistema industriale è buono, investiamo ovunque, cresciamo in termini di fatturato, apriamo sempre più negozi, in Cina per esempio, in India l´anno prossimo saranno un centinaio. Resta da conquistare l´Africa che, a parte i paesi affacciati sul Mediterraneo e il Sudafrica, dove già sventolano gli United Colors, è ancora soggiogata dalla povertà, dalla fame, dalla sudditanza delle donne e da quelle guerre civili che Benetton illustra ancora nella sua comunicazione. «Però cominceremo presto dall´Angola che, tra diamanti e petrolio, sta avviandosi verso una forma di benessere». Le magliette continuano a trionfare in luoghi sempre più esotici, lo spirito libertario e mondialista del marchio si è addolcito ma esiste ancora, come per la campagna promossa assieme al World Food Program, con i bei ritratti di persone che vivono in paesi disagiati e le semplici scritte, in inglese, Cibo per studiare, Cibo per lavorare, Cibo per la pace, Cibo per la vita. «Nel 1969 aprimmo il primo negozio all´estero, e fummo tanto temerari da scegliere Parigi, rue Bonaparte, nel cuore della massima eleganza mondiale. Era come sottomettersi a un duro esame con professori molto esigenti. Eravamo coscienti del rischio, ma se non rischi, che divertimento c´è? per quella prima sfida di noi provinciali neoimprenditori, che oggi abbiamo scelto Parigi e il suo celebre Centre Pompidou per festeggiarci». Natalia Aspesi