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 2006  agosto 27 Domenica calendario

Prodi contro Prodi. La Stampa 27 agosto 2006. Varcate le colonne d’Ercole dei primi cento giorni, il governo Prodi si avvia a navigare in mare aperto

Prodi contro Prodi. La Stampa 27 agosto 2006. Varcate le colonne d’Ercole dei primi cento giorni, il governo Prodi si avvia a navigare in mare aperto. Settembre, infatti, è il mese nel quale le intenzioni espresse nel Documento di programmazione economico finanziaria (Dpef), presentato a luglio, devono essere tradotte in norme precise, ossia in Legge finanziaria per il 2007. Che cosa ci aspetta, dunque? Purtroppo il Dpef, pur essendo pieno di analisi e di dichiarazioni di intenti, non dice in modo chiaro e preciso né che cosa ci aspetta nel 2007, né che cosa ci aspetta nei restanti anni della Legislatura, ossia da qui fino al 2011. Due cose precise, però, il Dpef le dice: nel 2007 ci sarà una correzione netta dei conti pubblici di circa 20 miliardi (1,3 punti di Pil), come saldo fra maggiori entrate e minori spese, e negli anni successivi l’aggiustamento continuerà, a un ritmo medio di 0,6 punti di Pil all’anno. Alla fine del periodo l’avanzo primario, attualmente allo 0,5%, sarà tornato prossimo al 5%, ossia al livello che ci aveva consentito di entrare in Europa. Insomma: da Prodi a Prodi. Era stato Prodi a portarci in Europa, erano stati tutti i suoi successori - D’Alema, Amato, Berlusconi - a portarci fuori dei parametri europei (contrariamente a quel che molti credono, la tendenza al deterioramento strutturale dei conti pubblici inizia già nel 1998, ben prima di Tremonti). Ora Prodi è «richiamato alle armi», essenzialmente per non farci uscire dall’Europa. Tradotto in soldoni, il programma dichiarato nel Dpef è più o meno questo: 65 miliardi di aggiustamento, di cui 20 subito. Tanto per dare un’idea degli ordini di grandezza: 3000 euro a famiglia, di cui 1000 subito. Quel che però nel Dpef non c’è scritto in modo esplicito è come un simile risultato verrà ottenuto, in che misura con più tasse e in che misura con minore spesa pubblica. Nelle numerose tabelle che descrivono il quinquennio 2006-2011 vengono riportate ogni sorta di grandezze macroeconomiche, ma non le due più importanti: di quanto il nuovo governo vuole innalzare la pressione fiscale, e di quanto vuole contenere la spesa pubblica. Poiché i due dati chiave non ci sono, ho provato a ricavarli dalle altre grandezze pubblicate, e il risultato è questo: il governo Prodi vuole, in cinque anni, aumentare le entrate di circa 2,1 punti di Pil (31 miliardi ai prezzi attuali), e ridurre la spesa pubblica di 2,3 punti di pil (34 miliardi). Da questi rozzi calcoli capiamo subito perché sindacati e sinistra radicale sono in fibrillazione: passi per le tasse, che ci si illude sempre di far aumentare solo per ricchi, arricchiti, pescecani e furbetti, ma 34 miliardi di spesa pubblica in meno sono un vero e proprio «attacco allo Stato sociale». La sinistra sindacale e politica si sta accorgendo di una cosa che non può dire, e forse nemmeno pensare: quando c’era Tremonti e si straparlava di «macelleria sociale» in realtà la spesa sociale saliva (e le tasse diminuivano), mentre ora che finalmente «siamo al governo noi» quel che si profila all’orizzonte è un mix di nuove privatizzazioni, più tasse e minore spesa sociale. Insomma Berlusconi - come Craxi a suo tempo - ci ha permesso di vivere al di sopra dei nostri mezzi, e tocca al solito Prodi rimettere le cose a posto. Ma allora il Dpef ci prende in giro quando parla di riforma degli ammortizzatori sociali, asili nido, politiche per la famiglia e via cantando? Come possiamo aver fiducia in un governo che per «rilancio della crescita» intende un modesto +1.5% all’anno di incremento del Pil, e come se non bastasse prevede che la maggior parte di esso, anziché ad irrobustire lo Stato sociale, vada al ripianamento del debito? Se questo è il prezzo, meglio tenerci il debito. Queste, più o meno oscuramente, sembrano le preoccupazioni che si stanno facendo strada a sinistra. Ad esse il governo non sta dando nessuna vera risposta. Perché? Forse perché una risposta chiara e coraggiosa metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa del governo Prodi. Stante il fatto che il governo (giustamente, a mio modo di vedere) non ha alcuna intenzione di raccogliere l’invito di una parte della sinistra a infischiarsene dell’Europa e del patto di Maastricht, le risposte che esso potrebbe dare alla «sinistra inquieta» si riducono infatti essenzialmente a due. Prima risposta. Ragazzi, abbiamo ballato per trent’anni, è arrivata l’ora di tirare la cinghia. Vi chiediamo dei sacrifici. Sì, nonostante tutto quel che abbiamo detto e promesso la Legislatura non sarà una passeggiata. L’Italia può crescere un pochino di più che sotto Berlusconi, ma non tanto di più. Dobbiamo rimboccarci le maniche, se vogliamo restare in Europa. Seconda risposta. Guardate che noi facciamo sul serio. Lo Stato sociale si può salvare, anzi rafforzare. L’Italia può crescere al ritmo dell’Europa, sopra il 2% all’anno. Naturalmente, oltre a rilanciare le liberalizzazioni, bisognerà far riemergere gradualmente almeno 1/3 del sommerso, ed affondare il bisturi negli sprechi (e nelle truffe) della spesa pubblica. Se riusciremo a fare queste tre cose, non solo risaneremo i conti, ma potremo ridurre le aliquote, ridare competitività alle imprese, creare nuova occupazione regolare, offrire migliori servizi sociali. Entrambe le risposte richiedono coraggio, perché - in un modo o nell’altro - chiedono ai cittadini di rinunciare a sicurezze, tutele e privilegi. Nel primo caso, senza offrire nulla di appetibile in cambio (l’abbattimento del debito pubblico esalta solo banchieri e tecnocrati). Nel secondo caso offrendo una chance di rilancio dell’Italia, ma facendone ricadere i rischi soprattutto sul Mezzogiorno, dove sono concentrati oltre metà dell’evasione fiscale e degli sprechi. Ma un governo che volesse avere un simile coraggio, dovrebbe avere anche una grande autorità morale. Non si può chiedere molto agli altri, se non si è nella posizione per farlo. E’ il nostro governo in tale posizione? Difficile rispondere di sì, a giudicare dallo spettacolo che ha dato nei suoi primi cento giorni: aumento del numero di ministeri, moltiplicazione delle poltrone, nessun passo indietro dei partiti dalla sanità e dalla Rai, nessun vero segnale di riduzione dei costi della politica, e infine la vergogna dell’indulto esteso ai politici corrotti e ai furbetti di ogni possibile quartierino. Era innanzitutto per questo - perché il governo non perdesse autorità morale - che alcuni di noi presero posizione contro quel provvedimento, e non certo per moralismo o vocazione giustizialista: proprio perché sapeva di dover chiedere molto agli italiani, il nuovo governo non poteva permettersi il lusso di essere indulgente con sé stesso. Soggiacendo alla fame di poltrone dei partiti e non opponendosi all’indulto allargato a corrotti e corruttori, Romano Prodi ha sprecato l’occasione che la «luna di miele» dei primi cento giorni offre ad ogni nuovo governo. Così Prodi ha finito per legarsi le mani da sé. Prodi è diventato prigioniero di se stesso. Per cambiare davvero l’Italia, il suo governo dovrebbe avere le carte in regola per chiederci di fare la nostra parte. Non avendole, preferirà semplicemente sopravvivere, lasciando l’Italia più o meno com’è? Luca Ricolfi