Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  agosto 22 Martedì calendario

Scommettere sulla Turchia. Il Sole 24 Ore 22 agosto 2006. L’intervento europeo e italiano in Libano, inteso a Parigi e Roma come la ripresa di una politica estera europea dopo la forzata assenza irachena, rischia di essere un atto affrettato e controproducente, e forse anche una trappola

Scommettere sulla Turchia. Il Sole 24 Ore 22 agosto 2006. L’intervento europeo e italiano in Libano, inteso a Parigi e Roma come la ripresa di una politica estera europea dopo la forzata assenza irachena, rischia di essere un atto affrettato e controproducente, e forse anche una trappola. Il mandato dell’Onu, così come è stato strutturato, porta con sé un rischio altissimo di insuccesso e di pericolo per i nostri militari. Una diversa e più lungimirante politica è però ancora possibile. Investe la possibilità di dare un ruolo strategico alla Turchia nella stabilizzazione del Libano. La vicenda israelo-libanese degli ultimi due mesi non può essere affrontata senza un quadro tattico e strategico più ampio. Nella sua ricerca di egemonia regionale il presidente iraniano, già da febbraio, ha colto il punto chiave: Ahmadinejad ha misurato la debolezza e il sostanziale disimpegno di Bush nei suoi ultimi due anni di presidenza. Israele è ora più solo e lo sa, mentre si è aperta una finestra di opportunità nello scacchiere geo-strategico mediorientale per chi la vuole sfruttare al fine di destabilizzare definitivamente l’Occidente. Ahmadinejad ha quindi "attivato" gli Hezbollah libanesi - sciiti come il 97% degli iraniani - in modo da creare i presupposti per un secondo fronte nel quale impegnare e possibilmente fare impantanare gli Usa e i loro alleati. Tale ipotesi è confermata dal fatto che, al di là del rapimento iniziale dei soldati israeliani, l’area del Sud Libano era stata già da mesi militarizzata e fortificata, creando una nuova linea di scontro dopo l’Iraq. Nonostante l’accordo Onu e il dispiegamento dell’esercito libanese a sud del fiume Litani (perlatro composto per più di metà da sciiti), varie dichiarazioni di politici libanesi e degli Hezbollah stessi fanno chiaramente intendere che questi ultimi non saranno disarmati. In questo quadro, la presenza di truppe con una forte componente europea rischia di essere una trappola, sia da un punto di vista militare che politico. Innanzitutto sono troppo scarse e diversificate: per essere efficaci richiederebbero almeno 50mila uomini perfettamente integrati da un punto di vista operativo. Inoltre non potranno prevenire, ma solo rispondere a violazioni del cessate il fuoco, trovandosi così in difetto di iniziativa tattica. Politicamente la trappola è altrettanto grave. La presenza di truppe cristiane nella regione può dare l’opportunità di denunciare una nuova crociata contro l’Islam. D’altra parte, l’Iran userà il Libano come arma di contrattazione nel negoziato sui suoi progetti nucleari nei prossimi mesi. Ma, fondamentalmente, le scarse forze militari in Libano potrebbero divenire ostaggio e pretesto di uno schema governato da chi conta sulla propria capacità di mobilitazione di milioni di persone, anche per acquisire un’influenza schiacciante su Paesi finora filo-occidentali come Giordania, Egitto e magari Arabia saudita. Basta "riattivare" i razzi degli Hezbollah dopo il dispiegamento delle truppe europee, costringendole a reagire insieme a Israele. In questa partita a scacchi sembra che l’Occidente sia sempre in ritardo. La strategia in Europa avrebbe dovuto essere ben diversa: un chiaro mandato politico dell’Onu alla Nato (che ha le strutture per portarlo avanti efficacemente), con l’incarico di normalizzare tutta la zona meridionale del Libano, ma con la Nato che, pur mantenendo il comando strategico della missione, utilizza sul campo solo o fondamentalmente truppe turche, che sono ampie e interoperabili tra loro, islamiche ma secolari. Con forze navali e aree europee solo in appoggio tattico-logistico. In questo modo la nozione di una crociata perderebbe efficacia e i rischi militari sarebbero minori, perché una forza unica è più efficace di un mosaico di forze nazionali distinte e di sistemi operativi diversi. evidente che, anche nel caso della Turchia, i ricordi dell’impero ottomano pongono problemi storico-politici nella regione, ricomponibili però entro un’affinità culturale e religiosa. Inoltre potenziare il ruolo strategico della Turchia, nazione islamica ma secolare e appartenente alle istituzioni del sistema occidentale, come la Nato, e farne uno degli stabilizzatori della regione, come contrappeso all’Iran, potrebbe essere un’opzione strategica degna di un serio dibattito. Chiedere alla Turchia di schierare cinque divisioni in Libano è un atto che implica, ovviamente, una forte contropartita politica ed economica da parte nostra. Un’Europa a 25 paesi, e tra poco ancor più allargata, e quindi con una massa critica cristiana rafforzata dai Paesi dell’Est, può accogliere un Paese musulmano senza che vengano compromessi i suoi valori culturali fondamentali, senza sconti alla Turchia e certamente nel quadro delle regole e delle istituzioni consolidate. Ma in queste settimane il fascino di usare l’occasione libanese per mostrare una politica estera finalmente attiva, e apparentemente autonoma da Washington, rischia di prevalere a Parigi e, purtroppo, anche a Roma. Fabio Basagni