Ian Buruma, Corriere della Sera 24/8/2006 pp. 1 e 37., 24 agosto 2006
L’ossessione dell’identità Corriere della Sera, giovedì 24 agosto L’aspetto più strano dell’alterco con le forze dell’ordine in cui è stato di recente coinvolto Mel Gibson non riguarda le ingiurie contro gli ebrei
L’ossessione dell’identità Corriere della Sera, giovedì 24 agosto L’aspetto più strano dell’alterco con le forze dell’ordine in cui è stato di recente coinvolto Mel Gibson non riguarda le ingiurie contro gli ebrei. La nozione che «gli ebrei di merda» sono «responsabili di tutte le guerre del pianeta» (e di tutto il resto si direbbe) non è né nuova né insolita. stato un cliché antisemita per secoli. Più preoccupante è quel particolare miscuglio di sentimentalismo religioso e di arroganza hollywoodiana che è affiorato dopo che Gibson ha smaltito la sbornia in galera. L’attore ha dichiarato che desiderava «incontrare i capi della comunità ebraica, con i quali instaurare un dialogo diretto, per scegliere la via migliore verso la guarigione». Come se nessun altro, al di fuori dei «capi religiosi», potesse fare al caso suo; come se questi presunti «capi» fossero preti, o psichiatri, o guru appositamente addetti alle cure dello spirito. Come se l’antisemitismo fosse un morbo inflitto a Gibson dal mondo esterno. L’antisemitismo esiste ancora, così come i pregiudizi contro neri, musulmani, sikh, tutsi, o persino cattolici, non sono mai scomparsi. Che gli ebrei siano stati vittima del genocidio più sistematico della storia conferisce all’antisemitismo una sfumatura particolarmente sinistra, ma in quanto pregiudizio non ha nulla d’insolito. Lo sterminio degli ebrei, almeno in Occidente, non è più una minaccia reale, e certo non pensava a questo Gibson. Ma il pregiudizio sociale basta e avanza. almeno un segno di progresso che l’antisemitismo, come il pregiudizio razziale contro i neri, non sia più socialmente accettabile. Non si possono più bollare le persone come «sporchi negri» o «sporchi ebrei» senza doverne rispondere davanti alla legge, e questo è già un passo avanti. Con ogni probabilità questo progresso non sarebbe stato possibile senza l’intervento dei movimenti d’opinione e delle organizzazioni sociali, un po’ come i diritti dei lavoratori non sarebbero mai stati garantiti a tutti, o forse nemmeno concessi, senza i sindacati. Ma come tutte le forme di potere, il potere di promuovere gli interessi di minoranze vulnerabili è esposto alla corruzione. Proprio come i leader sindacali talvolta abusano della loro posizione per accumulare potere (e denaro) per i propri scopi, così i leader delle varie comunità e i guardiani dell’antirazzismo sono talvolta tentati di perseguire i propri interessi in modo non sempre favorevole alle persone che dovrebbero difendere. Quando si suona l’allarme troppo spesso, e a volte senza nessun motivo, o quando ci si sente offesi per motivi personali, senza nessuna chiara provocazione, questa sorveglianza rischia di slittare in una forma di intimidazione contro la libertà di espressione. Uno dei grandi poteri di cui si sono impadronite le organizzazioni delle varie comunità, come pure i governi nazionali autoritari, è il potere sull’uso del linguaggio. Esse stabiliscono i termini in cui le loro comunità possono essere discusse dagli altri. L’intimidazione è più efficace quando i timori aleggiano in superficie e le minacce restano sottintese. Un esempio è l’attuale timore di dire qualunque cosa che possa apparire antisemita, specie negli Usa, dove gli ebrei si sentono più al sicuro che in ogni altro Paese in qualsiasi momento della loro storia. Di nuovo, è una cosa buona stare in guardia contro l’antisemitismo. Ma questo allarme è squillato così spesso e con reazioni talmente spropositate da provocare un’ansia esagerata che soffoca ogni dibattito serio, e non soltanto per quel che riguarda la posizione attuale di Israele. Qualche tempo fa mi è stato chiesto, da un curatore del Metropolitan Art Museum di New York, di scrivere un articolo per il catalogo di una mostra sulla storia dell’abbigliamento e del dandismo in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX. Come esempio della relativa libertà della società inglese dell’Ottocento, in confronto al resto d’Europa, ho citato Benjamin Disraeli, un dandy ebreo che arrivò a ricoprire la carica di primo ministro. Il redattore del catalogo e il curatore della mostra non hanno perso tempo a farmi capire che il riferimento al dandy ebreo doveva sparire. Hanno detto che non sapevo «com’erano le cose là dentro», e che «i membri del consiglio erano molto suscettibili su questo argomento». Forse sì, forse no. Nessun membro del consiglio d’amministrazione aveva visto il testo. Ma il timore di un giudizio negativo era bastato a far cancellare le parole considerate «lesive». Questi battibecchi sull’uso del linguaggio travalicano i confini delle comunità. Nel clima attuale uno scrittore di origine ebraica, o islamica, o sikh può essere accusato facilmente di aver offeso la sua «comunità» dal di fuori. L’esempio più famoso è Salman Rushdie, ma ce ne sono tanti altri. A Birmingham, in Inghilterra, la rappresentazione di un’opera teatrale intitolata Behzti («Disonore»), di un autore britannico di origine sikh, Gurpreet Kaur Bhutt, su delitti e abusi sessuali nella sua comunità, è stata sospesa quando i sikh hanno inscenato violente proteste davanti al teatro. Ben pochi, o forse nessuno, di loro aveva letto l’opera, ma i leader della comunità, invitati ad assistere alle prove, si erano sentiti offesi dalla «rappresentazione negativa» dei sikh. La polizia si è rifiutata di garantire la sicurezza e l’opera è sparita dal cartellone. Dal bestseller di Monica Ali, Brick Lane, che parla della comunità originaria del Bangladesh in Inghilterra, sarà tratto un film che doveva essere girato proprio a Brick Lane, nell’area a Est di Londra dove abitano gli immigrati di quel Paese. Ma un commerciante del posto, di nome Abdus Silique, ha dato vita alla «Campagna contro il film Brick Lane di Monica Ali», minacciando di dare alle fiamme i suoi libri, perché sosteneva che il romanzo non rappresentava nel modo giusto la sua comunità. Silique e un gruppo di uomini che la pensano come lui si definiscono «capi della comunità», anche se non sono stati eletti in quel ruolo da nessuno, e anche se la maggioranza degli immigrati del posto non ha sollevato obiezioni alla realizzazione del film, né al romanzo di Monica Ali. Eppure è stato necessario trasferire il set del film in un’altra zona. Malgrado tutto il bene realizzato in passato dalle organizzazioni delle varie comunità, la visibilità sempre maggiore dei cosiddetti «capi della comunità» e di altre figure che si appropriano del diritto di definire come gli altri devono parlare delle loro comunità, sta minacciando seriamente il diritto alla libertà di espressione. Rushdie ha fatto una distinzione importante tra l’attacco alle persone e la critica rivolta al loro modo di pensare. Se è indispensabile trattare con rispetto il singolo individuo, sia esso musulmano, cristiano, ebreo, sikh o altro, credenze od opinioni non devono essere esonerate dalla critica, né dalla satira. Il problema è che molti credenti sono incapaci di tali distinzioni. Theo van Gogh, il regista olandese, è stato assassinato due anni fa da un fondamentalista islamico per aver «insultato il Profeta». Van Gogh, benché spesso offensivo, o addirittura scandaloso, non ha mai preso di mira l’individuo di fede islamica, ma solo la fede religiosa. Per il suo assassino però non c’era nessuna differenza. E i nostri leader si rivelano sempre più insicuri e timorosi e finiscono per cedere a queste pressioni. Il governo inglese ha introdotto una nuova legge quest’anno contro l’istigazione all’odio razziale per motivi religiosi. Ciò sembra molto progressista e di nobile ispirazione. In realtà non lo è. Chi definisce il significato di odio? Chi decide quando è stato istigato? Se permettiamo ai capi delle minoranze, che siano legalmente eletti a quel ruolo o l’abbiano assunto di propria iniziativa, di censurare ogni critica con la minaccia della violenza, lasciamo campo libero al fanatismo. Se si pensa che il mondo sia dominato da una congiura ebraica, non ci meraviglia che Gibson abbia chiesto di parlare con i suoi massimi rappresentanti. Il numero crescente di persone che intervengono in difesa degli ebrei e di altre minoranze non fa altro che confermare i sospetti di quanti sono convinti che esista davvero una congiura ebraica. In un certo senso, i leader delle minoranze più indifese sono un po’ come i capi delle gang criminali e difatti tali organizzazioni, che seguono le specificità etniche, spesso dichiarano di difendere gli interessi degli immigrati più recenti, che non sanno a chi rivolgersi appena sbarcati. Ma quale italoamericano o anglocinese di seconda o terza generazione vorrebbe mai essere rappresentato dalla mafia o dalle triadi cinesi? La maggior parte delle persone, superato il disagio iniziale, vogliono essere identificate come cittadini del Paese di accoglienza, piuttosto che come membri di una comunità etnica o religiosa, anche se questo non esclude la possibilità di appartenere a entrambi. L’ideale del multiculturalismo nasconde un aspetto reazionario. Si presume che le minoranze siano più contente di farsi rappresentare da leader etnici o religiosi piuttosto che da esponenti nazionali. Questo concede troppo potere ai capi delle comunità, il cui status dipende dalla loro abilità nel controllare il modo in cui parliamo delle persone da loro rappresentate, e questo impedisce proprio ai loro protetti di pensare a se stessi come singoli cittadini. Anzi, impedisce qualunque dibattito razionale. E il dibattito è un aspetto vitale dell’educazione politica. Nelle società democratiche è stato necessario educare la maggioranza al rispetto delle minoranze. Ma oggi gli immigrati e i loro figli devono imparare che l’offesa è il prezzo che dobbiamo tutti pagare per la libertà di pensiero e di espressione. Poiché molti immigrati vengono da Paesi dove tale libertà non esiste, dovrebbero essere i primi ad apprezzarne i benefici. Ian Buruma