Massimo Gaggi, Corriere della Sera 9/8/2006, pagina 33., 9 agosto 2006
Lo stop di Bernanke e il peggio che verrà. Corriere della Sera, mercoledì 9 agosto La decisione presa ieri dalla Fed, la banca centrale Usa, di non aumentare di nuovo i tassi d’interesse, in tempi normali sarebbe una «non notizia»
Lo stop di Bernanke e il peggio che verrà. Corriere della Sera, mercoledì 9 agosto La decisione presa ieri dalla Fed, la banca centrale Usa, di non aumentare di nuovo i tassi d’interesse, in tempi normali sarebbe una «non notizia». Invece la novità c’è ed è clamorosa perché, dopo 17 consecutivi rincari del costo del denaro (salito negli ultimi due anni dall’1 al 5,25%), il neopresidente Ben Bernanke ha deciso – nonostante il voto contrario di uno dei governatori della Fed – di cambiare rotta pur in presenza di un’inflazione che cresce ad un ritmo mai visto negli ultimi anni: un dato che avrebbe giustificato un’ulteriore «stretta», come quelle decise nei giorni scorsi dalla Banca centrale europea e dalla Banca del Giappone. Bernanke, subentrato sei mesi fa ad Alan Greenspan, il «gran sacerdote» che per quasi vent’anni ha manovrato il rubinetto del sostegno monetario alla crescita Usa, è ancora guardato con diffidenza dai mercati, mentre alcuni analisti lo accusano di essere un po’ ondivago. In realtà l’unica colpa del presidente della Fed è quella di aver ereditato lo scettro di Greenspan in un momento difficilissimo, con l’economia che sta rallentando molto più di quanto i dati ufficiali e le stesse analisi della Banca centrale non dicano. Sono in molti, ormai, a temere che, dopo un ulteriore rallentamento nella seconda parte di quest’ anno, l’economia americana possa entrare in recessione già all’inizio del 2007. I più pessimisti parlano di «stagflazione», micidiale miscela di economia in "panne" e di prezzi che, nonostante ciò, crescono ancora. La Federal Reserve continua a disegnare per il 2007 uno scenario di rallentamento controllato dell’economia (crescita al 3%) e di calo dell’inflazione rispetto ai picchi di quest’anno. Uno scenario molto ottimistico che è stato demolito, oltre che dagli analisti che già da tempo vedono una recessione all’orizzonte, anche dagli economisti «mainstream» sia progressisti che conservatori come Paul Krugman e Martin Feldstein. La stessa Fed, del resto, dimostra di non credere più al suo stesso, tranquillizzante scenario quando rinuncia a un altro aumento del costo del denaro che, in «termini di scuola», sarebbe stato indispensabile, vista la rapida crescita dell’inflazione (2,9% dopo aver tolto petrolio e cibo) e, ora, anche delle retribuzioni. Bernanke costretto a scegliere il minore tra due mali, è la materializzazione delle previsioni più pessimistiche formulate sei mesi fa, ai tempi del cambio della guardia: quelle che avevano suggerito all’«Economist» una memorabile copertina nella quale lo staffettista Greenspan, alla fine del suo sprint su una pista di atletica, passava a Bernanke un testimone che, in realtà, era un candelotto di dinamite. Ora la miccia è quasi tutta consumata: del lunghissimo ciclo di espansione «pilotato» da Greenspan al suo successore rimangono – oltre agli squilibri di un’America che consuma troppo, risparmia poco ed ha un deficit stratosferico della bilancia commerciale – una «bolla» immobiliare il cui sgonfiamento è destinato ad avere effetti molto più pesanti di quanto fin qui immaginato. I dati per ora disponibili non sembrerebbero così drammatici: il tasso di crescita dell’economia Usa è più che dimezzato, ma rispetto ad un primo trimestre caratterizzato da un ritmo insostenibile (5,6%). La creazione di nuovi posti di lavoro continua a rallentare, ma il tasso di disoccupazione (salito dal 4,6 al 4,8%) rimane molto più vicino a una situazione di pieno impiego che all’elevata quota dei «senza lavoro» tipica dell’Europa. In realtà il peggio deve ancora venire. Lo sgonfiamento della bolla immobiliare provocato dall’aumento dei tassi ha innescato un rallentamento dell’economia che opera su tre fronti: forte diminuzione della costruzione di nuovi alloggi, una delle voci più dinamiche del Pil Usa; calo dell’occupazione (l’edilizia «muove» circa il 10% del mercato del lavoro); netta contrazione dei consumi delle famiglie, per la fine dell’«effetto ricchezza» legato al rapido aumento dei valori immobiliari che aveva spinto gli americani a spendere di più anche grazie alla facilità con la quale ottenevano un rifinanziamento dei loro mutui. Non basterà una pausa nell’aumento dei tassi a investire questo trend, anche perché il mercato non ha ancora pienamente scontato gli effetti degli incrementi decisi in passato (normalmente l’impatto pieno si ha con 6-9 mesi di ritardo). Alcuni cominciano a parlare di un taglio dei tassi in autunno, ma – avverte Feldstein – nessuno dei fattori che alimentano l’inflazione è stato fin qui disinnescato. Massimo Gaggi