Arrigo Benedetti, Corriere della Sera 18/9/1974., 18 settembre 1974
Corriere della Sera, 18/9/1974 Il penultimo giorno d’agosto, un uomo di trentun anni che i genitori e la sorella consideravano ancora bambino ("Vuole fare di testa sua" dicevano) recatosi con amici in barca a vela al largo dello scoglio di Spargiotto, s’attardò in mare
Corriere della Sera, 18/9/1974 Il penultimo giorno d’agosto, un uomo di trentun anni che i genitori e la sorella consideravano ancora bambino ("Vuole fare di testa sua" dicevano) recatosi con amici in barca a vela al largo dello scoglio di Spargiotto, s’attardò in mare. Indossava la muta. La mamma e il babbo ricorderanno sempre la muta d’un colore scuro e i piombi da appendere alla cintura per facilitare l’immersione quando, andato a trovarli verso la fine di luglio in campagna, sotto i loro occhi, disfece e rifece la valigia. Rabbrividirono. Quel penultimo giorno di agosto il tempo era bellissimo, la moglie del trentunenne e le altre mogli erano sulla riva di Punta Sardegna, aspettavano, preparavano sulla tovaglia stesa per terra i cibi della colazione, guardavano il mare. Non angoscia, forse la lieve ansia di sempre, il logorio dell’attesa. La luce era intensa, l’aria trasparente, le isole apparivano simultaneamente a portata di mano e vicine. Che felicità! Il trentunenne aspirò la quantità d’aria che lui di natura sperimentale credeva necessaria per un’altra immersione, prima della gioia di tornare sulla spiaggia dove l’aspettava la soddisfazione conviviale da cui era pervaso sebbene fosse frugale, appena sedeva a tavola coi genitori in campagna oppure a Milano, e con gli amici. La vista dei cibi lo rallegrava, gli piaceva fotografarli, sebbene non fosse vorace, sapeva gustarli; beveva con misura ma la trasparenza d’un vino rosso in un bicchiere lo incantava; impiegava minuti e minuti a studiarne la tonalità. Voleva capire le leggi ella luce che varia posandosi sulle cose e della quale sentiva la materialità. Il giovane decise d’immergersi ancora una volta, non per uccidere pesci. Non pescava, non cacciava: nei boschi, guardava i riflessi del sole infiltrarsi come lame nel fogliame, ascoltava gli uccelli, lo incuriosivano quelli diurni e quelli notturni, sentiva un’ingiustizia nell’amare più quelli che cantano alla luce del giorno degli altri che urlano nelle tenebre. Salvava i gatti appena nati che le famiglie disperdono, e li portava a casa; gli piacevano i cani, le volpi, i cavalli, gli asini; leggeva volentieri libri sugli animali: cercava di capirne di segreto linguaggio la non immaginabile moralità. Quando prendeva una farfalla, e la teneva tra il pollice e l’indice della destra – di quella mano affusolata, forte e abile nel lavoro – lasciava subito la presa e godeva d’una libertà riconquistata, espressa dal battito rapido delle ali colorate. Quel giorno d’agosto scendeva in apnea a una quindicina di metri, con la piccozza, riemergeva con frammenti di roccia e conchiglie: un’altra sua passione, le pietre, i sassi. Prima d’immergersi per l’ultima volta fece un cenno agli amici per dirgli che sarebbe risalito subito e invece non riemerse più. Lo trovarono i sommozzatori al crepuscolo. Il suo corpo era quello d’un giovane robusto, il suo volto era tranquillo, le sue labbra erano appena socchiuse. Nacque sui monti nel ’43 all’inizio della Resistenza. La famiglia, in villeggiatura nella casa paterna della madre, c’era restata dopo l’armistizio, in attesa che gli avvenimenti si chiarissero. Il padre si era trovato ad accettare impegni di cui non capiva la portata. Scriveva un romanzo (poi quando lo catturarono fu bruciato) e ogni tanto smetteva di battere i tasti per cullare il neonato. La mamma preparava da mangiare, non sapeva mai quanti sarebbero stati a tavola, arrivavano di continuo italiani e stranieri. Il bambino era nato lassù per caso ma, a ripensarci, ci si potrebbe scorgere un insieme d’eventi e sentirvi un che di misterioso. Sui monti di Reggio Emilia, era nata la madre, ne erano scesi più di un secolo fa i parenti materni del babbo, gente semplice, non rozza, uscita da famiglie difficili a definirsi socialmente coi nostri criteri. Un ramo mercanteggiava bovini, un altro forniva giovani che andavano a studiare a Modena e che tornavano notai, procuratori, cancellieri e giudici, ufficiali dello stato civile e delle poste, maestri, anzi per lo più maestre. Un giorno imprecisato dell’800, uno di quei mercanti, avvolto nel suo tabarro, in testa il berretto di volpe, invece d’avviare il bestiame verso Scandiano o verso Sassuolo, scese a sud portando con sé due bellissime figlie non ancora ventenni e arrivò in Garfagnana. Il mercante percorse penso a piedi o su un mulo la parte superiore della Val di Serchio; al Borgo a Mozzano, allora capolinea della ferrovia, salì in treno con le figlie, raggiunse il "montescendi" del Ponte San Quirico, a meno di due chilometri da Lucca. Le tettoie sostenute da colonne di ghisa per la fiera del bestiame di quei settembri esistono ancora. Lui scese in una locanda del Borgo Giannotti, le ragazze andarono a stare da una cugina che venuta dall’Appennino giovane e povera – forse per raccogliere le olive, come facevano donne chiamate lombarde, avendo in mercede pochi decilitri d’olio – aveva sposato un commerciante di canestri e di corbelli e d’altri articoli di vimine e di paglia. Dunque, il trentunenne morto nel mare di Sardegna al termine delle sue vacanze era nato sui monti all’inizio della guerra partigiana. Forse per avere visto la luce in un tempo così difficile, ai genitori parve finché visse bisognoso d’aiuto, di protezione. Lo sentirono debole la mattina quando, durante il battesimo, pianse, padrini volontari un capitano inglese e un capitano francese, e anche un sergente sovietico giunto pochi giorni prima, proprio nel momento del parto. Era mezzogiorno. Tutti insieme, gente del posto e forestieri si stringevano intorno al bambino tenuto con una certa cerimoniosità dalla madrina, una zia giovanissima, attorniata da militari che, per l’occasione, avevano indossato l’uniforme come facevano per prudenza solo quando pareva certo che il nemico – i fascisti, i tedeschi – tentasse di forzare le valli appenniniche. Fu una grande festa, sebbene il padre e la madre temessero che un mostro, subito dopo il tramonto, profittasse delle tenebre per uscire dai recessi nei quali fino ad allora la loro volontà insieme con quella degli altri l’avevano confinato. Stavano in ascolto, non tremavano per la loro sorte ma per quel corpicino che gli pareva tanto fragile, esposto all’offesa di un non ben definito nemico. Gli inglesi ogni sera diventavano tristi e cantavano per esprimere il loro sentimento. Il sovietico cullava il bambino con le sue nenie; appena imparò a parlare italiano, raccontò d’avere anche lui una bambina in Russia, ugualmente indifesa nello scontro immane degli eserciti. Dopo la battaglia di Smolensk era fuggito dall’ospedale in cui giaceva convalescente d’una ferita. I tedeschi l’avevano catturato nei boschi; fuggito di nuovo era finito in mano ai carabinieri italiani. Brava gente, diceva, solo calci in c. e spaghetti. E rideva perché gli era riuscito a scappare ancora una volta con la sua valigia contenente tutta la sua ricchezza: un taglio d’abito femminile, seta, e due tagli d’abito maschili, un orologio di similoro. Glieli aveva spediti la moglie quando era all’ospedale. Nel caso che i tedeschi raggiungessero Smolensk, gli aveva scritto la donna, potrai scappare e vivere contando sulla solidarietà della gente e facendo, se occorreva, un cambio merci, di cui invece non c’era mai stato bisogno. Così la valigia l’aveva sempre accompagnato fino al campo di concentramento italiano, e dopo l’armistizio sui nostri monti. Un "Ohi" gutturale era il suo intimo lamento, mentre cullava il bambino. Poi accaddero tante cose orribili. La famiglia si nascose in un bosco della Val di Freddana, in provincia di Lucca, nella catapecchia di un ombrellaio che aveva ceduto una stanza dal tetto sostenuto da un palo e l’uso del focolare a legna. La mamma lavava al fosso, badava alle altre faccende, il babbo teneva il bambino in collo, e il suo unico abito di grisaglia era, dalla mattina alla sera, bagnato di pipì. "Porcaccione" diceva al bambino però ridendo, perché se il babbo diventava serio, lui faceva il mestolino e piangeva, piangeva... Si spingevano insieme nei boschi, dentro un imprecisabile confine. Tra i monti e le colline fiammeggiavano i villaggi, uomini sconosciuti pendevano dagli olivi, le strade della pianura erano percorse dai cariaggi della lenta ritirata tedesca. Gli alleati aspettavano. Alla fine giunsero i negri della Divisione Buffalo, e anche loro presero in braccio il bambino, lo cullarono con i loro canti malinconici. Altre immagini: Roma 1944, tanto freddo, tanta fame e poco lavoro. La famiglia, affinché il calore tenue d’una stufetta a petrolio non si disperda, si raccoglie e s’avvolge con una coperta, e poi che risate quando al momento di spogliarsi per andare a letto i genitori, la bambina e il bambino che ha già un anno e mezzo s’accorgono di essere tutti affumicati. E sempre quel bisogno di proteggere lui che cresceva robusto, una sensazione di paura che smise d’incanto all’alba d’un sabato quando ai genitori giunse la notizia della sua morte in mare. Erano già in attesa del suo ritorno, dopo tante attese: di quando avuta la prima automobile rientrava a mezzanotte e si udiva il rombo sui tornanti della collina, di quando rimpatriava da un viaggio oppure tornava al lavoro dopo la felicità delle vacanze. Ora giace nella terra del paese appenninico dove nacque e dove le ossa di tanti parenti diventarono polvere. La mamma ha perduto un figlio e non sa più su chi riversare il suo timore del mondo. Ha un’altra figlia, una nipotina e un nipotino, l’orfano, ma inorridisce a trasferire su altri un sentimento da cui è stata pervasa per più di trent’anni. Il padre s’accorge d’avere perduto qualcosa oltre al figlio. Un legame più col presente che col futuro. Sono già avvenuti in Italia e all’estero fatti di cui avrebbero parlato insieme; nei cinema milanesi si proiettano film che avrebbero visto separati, ma di cui avrebbero parlato a lungo. Sui giornali sono usciti scritti dai quali avrebbero tratto considerazioni magari discordanti per poi arrivare a una concordia più salda. Non so se accada spesso che s’elevi un figlio a testimone dei propri atti e dei propri pensieri. Nel caso che ho descritto è successo. Non so infine se altri attraverso il figlio abbiano capito quale spregiudicatezza c’è nei giovani e quanta cautela nel giudicare il prossimo e nel fare la morale a chicchessia. Arrigo Benedetti