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 2006  maggio 03 Mercoledì calendario

Lisa, il marito e Leonardo, triangolo oscuro. Libero 3 maggio 2006. Noi italiani la chiamiamo Gioconda

Lisa, il marito e Leonardo, triangolo oscuro. Libero 3 maggio 2006. Noi italiani la chiamiamo Gioconda. I francesi anche. Gli americani preferiscono Mona Lisa (non conoscendo il veneziano). Lei da cinquecento anni sorride e lascia fare. Ma in questi giorni chi passa dal Louvre potrebbe vederla all’improvviso strizzare un po’ gli occhi, tanta è la luce accesa su di lei dai riflettori della leonardomania: sfruttando l’ondata modaiola del film di Ron Howard tratto dal ”Codice da Vinci” (tra 20 giorni nelle sale), una valanga di pubblicazioni d’ogni sorta si accanisce sulla povera Gioconda. A ridare pace al suo sorriso enigmatico ci prova ora Giuseppe Pallanti, studioso toscano e paziente frequentatore di archivi fiorentini, che con il saggio ”La vera identità della Gioconda” (Skira) dimostra quanto fossero fondate le venti righe dedicate al quadro da Giorgio Vasari, che nelle sue ”Vite” per primo le diede un nome: Lisa Gherardini. Nata a Firenze il 15 giugno 1479 in una casa di via Maggio, poco distante dalle rive dell’Arno, la giovane Lisa era secondo Vasari la bellissima primogenita di una nobile famiglia del Chianti impoverita dalle guerre. Appena sedicenne andò in sposa a Francesco del Giocondo, rampollo di una ricca schiatta di setaioli fiorentini, di quattordici anni più vecchio di lei e già vedovo con un bimbo piccolo. Il loro matrimonio assicurò a lei sicurezza e benessere, a lui una moglie devota e fedele, che gli diede quattro figli e si occupò in modo esemplare della casa e della famiglia. Appoggiandosi ai documenti reperiti tra antichi catasti e archivi storici, ma recuperando anche ricevute della ”spesa” di Lisa, gli atti notarili stipulati in occasione del loro matrimonio e il testamento autografo di Francesco del Giocondo, Pallanti ricostruisce le vite di Lisa e di Francesco, e dimostra come entrambi fossero in contatto con ser Piero da Vinci. Il padre di Leonardo era infatti un notaio affermato nella Firenze del secondo Quattrocento, e viveva a pochi passi dalla casa dei del Giocondo, che erano suoi clienti. Altro punto di forza della tesi di Pallanti sta nelle fonti di primissima mano usate dal Vasari per le sue Vite. L’architetto e storico dell’arte avrebbe avuto infatti, se non un racconto diretto di Leonardo o di Lisa e Francesco, perlomeno contatti con personaggi vicini alla coppia e all’artista. Negli otto anni trascorsi tra la prima e la seconda edizione delle Vite, durante i quali il libro circolò per la Firenze colta e il suo autore lo rettificò e aggiornò in più parti, nessuno dei parenti di Lisa e di Francesco ritenne di correggere le sue informazioni sull’origine del quadro, probabilmente commissionato dallo stesso Francesco come omaggio alla giovane e bella moglie. Da buon storico però Pallanti non si sottrae al confronto, e tira le fila di tutti gli interventi che nell’ultimo secolo hanno tentato di vedere nella Gioconda una donna diversa dalla Gherardini. Se per oltre quattrocento anni infatti agli studiosi è bastata la testimonianza del Vasari, nel 1911 il beffardo furto della Gioconda (rubato con facilità al Louvre da un imbianchino italiano di nome Vincenzo Perruggia, e recuperato solo due anni dopo) la fece diventare di colpo il quadro più famoso del mondo. Come reazione, l’immagine di Monna Lisa divenne un obiettivo polemico: non solo l’artista Marcel Duchamp nel 1919 le ”disegnò” baffi e pizzetto da ”pittor francese”, ma gli stessi storici si misero all’opera per smontare la tesi del Vasari. André-Charles Coppier, famoso incisore leonardesco, già nel 1914 diede fuoco alle polveri sostenendo che il soggetto ritratto non era mai esistito, e che Leonardo aveva voluto presentare un’immagine di donna idealizzata. Nel 1925 fu la volta di Adolfo Venturi, grande storico dell’arte, che identificò la musa di Leonardo in una nobildonna italiana, Costanza d’Avalos, duchessa di Francavilla. Nella seconda metà del Novecento Carlo Pedretti riprese in mano la testimonianza di Antonio De Beatis, segretario cardinalizio che nel 1517 visitò Leonardo in Francia, e la usò per dimostrare che la Gioconda era stata un’amante romana di Giuliano de’ Medici, di nome Pacifica Brandano. Nel 1977 fu la volta di un giapponese, lo storico Tanaka, che si pronunciò invece a favore di Isabella d’Este, la bella marchesa di Mantova tante volte già ritratta dai pittori rinascimentali e particolarmente desiderosa di posare per Leonardo. Nel 1981 l’inglese Martin Kemp tentò di cambiarle persino nome, chiamandola più genericamente ”Ritratto di dama al balcone”: impossibile, secondo lui, tentare un’identificazione storica precisa. L’ultima fantasiosa tesi, circolata di recente, sostiene infine che la Gioconda sia un autoritratto ”al femminile” dello stesso Leonardo, che ne dimostrerebbe una presunta omosessualità inconfessata. Gli studi di Pallanti, che tornano a suffragare l’originale versione vasariana, offrono una tale quantità di evidenze storiche da rendere sempre meno plausibili le proposte ”alternative”, concepite spesso più per dar lustro ai propositori che per far luce sulla storia del dipinto. L’agile volume, che contiene anche un piccolo affresco storico della Firenze del Rinascimento, è di piacevole lettura, e applica senza troppa presunzione il precetto filosofico medievale del ”rasoio di Ockham”: «Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora», che tradotto alla buona si rende con «non occorre rendere complesso ciò che è semplice». Ci si augura dunque che la dolce Lisa riesca a sottrarsi, almeno lei, al relativismo che imperversa su più fronti. E che con ciò trovi pace anche Leonardo, strattonato di qua e di là dalle più curiose letture esoteriche e divenuto, suo malgrado, persino un nemico della Chiesa. Pia Capelli