Varie, 20 aprile 2006
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Parr Martin
• Epsom (Gran Bretagna) 23 maggio 1952. Fotografo • «[...] è il cantore dell’estetica dell’ordinario. L’anti Helmuth Newton per eccellenza, il Balzac della commedia umana ai tempi del consumismo, del turismo, del fast food, del prefabbricato, del trionfo sintetico, del cattivo gusto di massa. Un uomo cattivo secondo alcuni: “Critico sociale gratuitamente crudele che ha fatto un mucchio di soldi, beffeggiando le debolezze e le aspirazioni di altra gente”, disse l’art director Colin Jacobson. Un grande artista tra i pochi capaci di gestire l’affresco corale contemporaneo secondo molti critici e raffinate signore come Agnès B., sua dichiarata ammiratrice. A tutti lui risponde: “Mio padre era un funzionario pubblico. Io sono cresciuto nel Surrey in un ambiente tipicamente Middleclass. Tutto qui: ho un perfetto pedigree da ceto-medio”. E al ceto medio ha dedicato una vita, più migliaia di chilometri di pellicola. Nei suoi archivi ci sono: i prefabbricati di Bristol con proprietari immortalati dritti come fusi di fronte alla porta (lei per lo più in calze elastiche, lui per lo più in giubbottino grigetto); gli ipermercati con carrelli traboccanti junkfood impugnati da consumatori obesi; le spiagge di New Brighton dove si prende il sole su moli di cemento in mezzo alla spazzatura; la serie “Signs of the Times” dove Parr si concentra su doppi ritratti di madri in puro stile cartamodello Burda e figlie con piercing e cresta punk. E soprattutto i turisti. Nuovo stadio dell’umana evoluzione (o involuzione). Materia antropologica per eccellenza agli occhi di Parr, turista perfetto lui stesso che alla domanda “qual è la cosa più bella nel mestiere di fotografo?” rispose un giorno: “Viaggiare, ficcare il naso ovunque, non spendere una lira e venir pure pagato”. [...] Il suo secondo lavoro lo vede tra i massimi collezionisti di oggettistica demenziale. Numero uno al mondo per raccolta di distintivi di cosmonauti, di cartoline scontate (con Phaidon ha già pubblicato tre libri delle sue collezioni, tutti dal titolo “Bored Postcards”), di tazze ricordo dalla Thatcher alla National Union dei minatori [...]» (Alessandra Mammì, “L’espresso” 16/3/2006) • «[...] Enfant terrible della leggendaria agenzia Magnum dal 1994, celebre per le immagini che hanno immortalato con corrosiva ironia l’Inghilterra di Margaret Thatcher negli anni 80 [...] Le foto di Parr sono ipercolorate, quasi un’eccezione nel Gotha dell’immagine che ha visto tutti i grandi - da Salgado ad Avedon, da Eisenstaedt a Riboud - prediligere il bianco e nero. Perché? “Amo molto il colore [...] Il bianco e nero è così antiquato... [...] Non credo che la mia predilezione per il colore sia sorprendente: dopo tutto, noi siamo a colori!”» (“Il Messaggero” 20/4/2006) • « Tutti hanno visto qualche foto di Martin Parr. Tutte, soprattutto: sono sue quelle foto con colori squillanti/acidi e dettagli umani/oggettistici/pop che le cape delle riviste femminili mettono a illustrare articoli di ogni genere quando non gli viene in mente niente di meglio. Perciò anche se si sa chi è, spesso si ha del suo lavoro un’idea riduttiva. [...] studiava fotografia a Manchester e cominciò a fotografare usi e costumi della classe operaia inglese. [...] negli anni ’80[...] fotografava i borghesi con villetta, gli interni delle case dei colpiti da improvvisa ricchezza dell’era Thatcher; e poi via via, i suoi viaggi a vedere la gente in vacanza, le sue peregrinazioni per descrivere omologazione, disfacimento sociale, ingrassamento collettivo. Tanto da assumere un ruolo — scrive Val Williams [...] — da “buffone alla corte del consumismo... con autentica malizia”. Parr è un fotografo controverso, anche per chi si occupa di fotografia. Henri Cartier-Bresson era molto scocciato quando lui entrò a far parte dell’agenzia Magnum; molti critici l’hanno accusato di eccessivo amore per il kitsch e di cattiveria verso gli umani immortalati. Nel 1986, quando la sua serie The Last Resort (sugli inglesi pop in vacanza) fu esposta a Londra alla Serpentine Gallery, il critico Robert Morris scrisse: “Siamo di fronte a un mondo da incubo, un mondo pauroso e claustrofobico dove la gente sta immersa fino al ginocchio nelle carte unte del fish and chips, nuota in stagni anneriti dall’inquinamento e fissa un orizzonte spoglio, fatto di decadenza urbana”. Williams lo difende (ovviamente): “Lo sguardo di Parr manca completamente di cinismo; c’è soltanto interesse, emozione e un senso genuino e forte della commedia”. E in effetti: l’unica volta che Parr tiene un diario di un suo progetto, nelle cittadine costiere della cintura di Liverpool, scrive con entusiasmo che pare autentico di vecchie botteghe, personaggi eccentrici, signore dal parrucchiere unico luogo d’incontro rimasto, visioni curiose nei centri commerciali. Certo, nota Williams, “le fotografie di Parr mettono a disagio perché per molti versi tirano fuori il peggio di noi, ci fanno apparire sprezzanti o sciocchi, snob o cinici. In un certo senso sono come scherzi: apparentemente innocui, ma destinati a farci fare una figura da idioti”. [...] Gli anti Parr nel mondo della fotografia citano l’art director Colin Johnson che lo descrive come “un critico sociale gratuitamente crudele che ha fatto un mucchio di soldi sbeffeggiando le debolezze e le aspirazioni di altra gente”. Ma forse è una descrizione gratuitamente ingiusta, mucchio di soldi a parte (ma buon per lui). Più che gratuitamente crudele, Parr è dichiaratamente e palesemente influenzato, fin dagli inizi, dai fotografi americani (allora) estremi degli anni ’60, da Garry Winogrand a Diane Arbus; donna come è noto non crudele, piuttosto personalmente sofferente. Parr magari soffre meno (o non lo dà a vedere, da figlio della vecchia middle class inglese che tratteneva le emozioni): però dice “molto più del cinema e del teatro, la fotografia è piena di sensi di colpa”. [...]» (Maria Laura Rodotà, “Corriere della Sera” 14/10/2006) • «[...] Oltre alla realizzazione degli scatti che l’hanno reso famoso, la passione per la fotografia di Martin Parr si declina in modi diversi: dalle cartoline postali (ne ha una delle maggiori collezioni al mondo) con le località di mare e le ragazze in costume che salutano, o con sperduti villaggi con le pecore che pascolano, ai libri di fotografia (anche in questo caso ha volumi rarissimi e ormai introvabili), alla raccolta delle immagini di quelli che considera i suoi maestri o i suoi compagni di strada o semplicemente dei fotografi di cui ammira il lavoro [...] Lo sguardo usato nei confronti dell’ordinary people della provincia inglese è certo meno impietoso e feroce di quello con cui scruta la volgarità del jet set internazionale: tra i pub di Liverpool o di Leeds e tra i paesaggi di Cambridge o di Cardiff si limita a mostrare quel che vede, senza formulare attraverso le immagini giudizi morali. E forse, come negli scatti con cui ha iniziato, più che la ricerca dei vizi dei suoi conterranei c’è la volontà di fermare un modo di vita che in qualche modo percepisce passeggero, quasi come un uccello che stia per volare via» (Rocco Moliterni, “La Stampa” 31/8/2009).