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 2006  aprile 19 Mercoledì calendario

Corleone, provincia di Palermo, sabato 8 aprile, mattina. Con telecamere sofisticate la polizia riprende un uomo che esce da una casa in contrada Punzonotto tenendo un pacco

Corleone, provincia di Palermo, sabato 8 aprile, mattina. Con telecamere sofisticate la polizia riprende un uomo che esce da una casa in contrada Punzonotto tenendo un pacco. La casa è quella dove vive la moglie di Bernardo Provenzano. L’individuo fa cinquecento metri e arriva in via Salvatore Aldisio, a casa sua. Domenica l’uomo porta il pacco altri quattrocento metri più avanti, nell’abitazione del padre, dove pranza. Di pomeriggio scende con dei recipienti per andare a prendere l’acqua potabile alla fontana: in mano tiene di nuovo lo stesso pacco. Sale in macchina, esce dal paese e prende la statale che porta al paese di Prizzi. Dopo un chilometro e mezzo si ferma alla fontana: saluta un uomo che è già lì, gli dà la busta. Martedì 11 aprile, alle 9 e 30 di mattina, in contrada Montagna dei Cavalli. Un’altra telecamera riprende sulla verandina di un casolare il pacco visto sabato per la prima volta. Qualcuno da dentro l’edificio apre la porta e allunga il braccio per prendere il plico. I poliziotti appostati nei dintorni intervengono: nella casa trovano Bernardo Provenzano, nell’involto camicie e calzini freschi di bucato. Quando fanno irruzione il latitante, chiamato dai suoi anche ”zu Binnu”, è seduto davanti alla macchina da scrivere elettrica di marca Brother Ax 410. Sul foglio infilato nel rullo le prime parole di una lettera indirizzata alla moglie: "Carissima, amore mio...", con cui forse voleva darle consigli sul matrimonio del figlio Angelo, previsto per il 7 maggio. Sul fuoco cuoce una pentola di cicoria, sul tavolo della cucina ci sono cipolle bianche, asparagi, un barattolo di miele. Provenzano assomiglia vagamente agli identikit, è più magro e ha occhiali dalle grandi lenti giallognole. In un primo momento cerca di negare la propria identità, poi ammette: "Sono io". Le uniche altre parole pronunciate in questo momento sono: "Voglio un infermiere. Tra un po’ avrei dovuto farmi l’iniezione...". Per essere sicuri che sia proprio lui, i poliziotti controllano che abbia una cicatrice sul collo. Vestito con maglioncino nero a girocollo, jeans, scarponcini, giubbotto scuro e sciarpa bianca, una bustina di medicinali in mano, viene portato negli uffici della Squadra mobile di Palermo. Non scambia una parola con il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, né con i due pm, Marzia Sabella e Michele Prestipino, che lo inseguono da una vita. Si limita a borbottare: "Che ci faccio qui? Io non c’entro niente, sono una brava persona. Voglio un infermiere, devo farmi un’iniezione". In silenzio firma il verbale, con una faccia come "quelle che fanno i preti, col ghigno buono e sornione allo stesso tempo", dice uno degli uomini che lo ha arrestato. Gli uomini di Enrico Cortese, da anni chiamato a Palermo ”il cacciatore” del padrino, insieme a quelli dello Sco e del Dipartimento anticrimine del prefetto Nicola Cavaliere (una trentina in tutto), sono arrivati alla cattura dopo aver intercettato più di quattro settimane fa la telefonata di una persona che prendeva accordi per prelevare della biancheria dall’appartamento di Corleone. Gli uomini mimetizzati si sono distribuiti fra paese e campagna, collegati a una centrale che controllava attraverso telecamere sia l’abitazione della donna sia la masseria isolata, apparentemente utilizzata solo da un pastore, Giovanni Marino, che faceva avanti e dietro a bordo di una vecchia Panda trasportando ricotta e formaggi. Sui due chilometri che separano Corleone e la masseria gli agenti hanno visto alternarsi diversi ”staffettisti”. Nella notte di martedì Provenzano è trasferito dal carcere di Palermo a quello di Terni, dove viene guardato a vista e videosorvegliato 24 ore su 24. In un’altra area del penitenziario ci sarebbe il figlio di Totò Riina, Giovanni, detenuto in regime di 41 bis (il ”carcere duro”). A Corleone sono subito fermati con l’accusa di favoreggiamento tre ”staffettisti”, che facevano da postini tra Provenzano, i vari capimafia e la famiglia del boss. I nomi: Calogero e Giuseppe Lo Bue, padre e figlio (quest’ultimo sposato con la figlia di un nipote del boss: è lui che prende la biancheria da casa di Provenzano, sabato mattina). Il terzo è Bernardo Riina, pastore settantenne, vecchio amico di ”zu Binnu”. Su di lui le indagini erano iniziate nel 2001, quando il suo nome fu trovato in alcuni messaggi sequestrati nell’indagine che portò all’arresto del boss Benedetto Spera. Calogero Lo Bue confessa d’aver portato pacchi a Provenzano, ma solo "dall’inizio di marzo e non più di 4 o 5 volte. Me l’ha chiesto Bernardo Riina, dicendomi che sarebbe stato necessario per poco tempo. Allora ho detto sì e ho coinvolto mio figlio che all’inizio non voleva, ma io l’ho convinto. Me ne pento, è stato il grande errore della mia vita". Aggiunge il figlio Giuseppe: "Lui me li dava e io a mia volta li portavo nel luogo indicatomi da Bernardo Riina, dove evidentemente qualcuno andava a prenderli per consegnarli alla masseria; non so altro, io con la mafia non c’entro. Non ho mai guardato che cosa ci fosse in quelle buste, mi avevano detto che si trattava di vestiti e vettovaglie. Volevo solo aiutare un vecchio". Naturalmente è stato arrestato anche Giovanni Marino, il pastore che impastava formaggi nella masseria dov’era nascosto Provenzano. La casa dove Provenzano viveva, almeno dalla fine del 2004: un casolare di pietra di circa quaranta metri quadri, diviso in tre camere. Ovunque odore acido di formaggio. Nella stanza d’ingresso un letto singolo, una stufetta elettrica, una termocoperta ancora chiusa nella confezione, un fornellino da caffè e due televisori (di cui uno rotto appoggiato a terra), la scrivania, un armadio in cui teneva un mazzetto di santini, gli occhiali, un po’ di medicine, il rosario. A destra, saliti due gradini, c’è la porta della cucina con pensili, dispensa, fuochi, una finestrella, un tavolino. A sinistra il bagno, costruito abusivamente non molto tempo fa: doccia, lavabo, sanitari e una finestra oscurata con uno di quei sacchi che serve per mettere la spazzatura. Non c’è il telefono, ma la casa è allacciata alla rete Enel e sul tetto svetta un’antenna. All’esterno uno sterrato, un piccolo caseificio dove il pastore Giovanni Marino faceva ricotte e caciocavalli, e la stalla delle pecore (qui, in un barattolo di vetro con penne e altri fogli, c’erano volantini elettorali di Totò Cuffaro, e della lista ”Patto per la Sicilia”, del sindaco di Corleone Nicolò Nicolosi). A Provenzano piaceva leggere i giornali: ogni giorno gliene recapitavano almeno un paio. Ritagliava con un bisturi gli articoli che lo interessavano di più (quasi sempre sulla mafia) e li conservava tra le pagine delle cinque copie della Bibbia che teneva in casa. Gli uomini che hanno perquisito il covo hanno trovato anche il libro ”L’azione. Tecniche di lotta anticrimine”, scritto dal capitano Ultimo, l’uomo che arrestò Totò Riina. Ma soprattutto sono stati recuperati circa 200 ”pizzini”: si tratta di messaggi arrivati dai capimafia, dislocati in diverse zone della Sicilia, dove si fa riferimento anche a persone finora insospettate. Ma ci sono pure comunicazioni personali: per esempio il messaggio con cui il boss voleva chiedere alla famiglia di mandargli la pasta al forno. L’ultimo ”pizzino” che Provenzano ha ricevuto nella masseria è del sabato precedente all’arresto. Si tratta di una lettera del figlio minore, Francesco Paolo, appena rientrato dalla Germania dov’è assistente di lingua italiana all’università: "Caro papà volevo informarti che sono tornato in paese per trascorrere le vacanze della santa Pasqua in famiglia, sto bene ed altrettanto so di te. Dio ti protegga. Tuo figlio Francesco Paolo". Molti messaggi sono cifrati e si sta cercando di interpretarli. Guardando la foto dell’arresto, Alfredo Mauro, patron del ristorante siciliano ”Don Corleone” a Marsiglia, ha scoperto d’aver servito Provenzano nell’estate del 2003, quando il boss era in Francia per l’operazione alla prostata (da allora sarebbe incontinente). "Non ricordo il menù ordinato dai quattro che si sedettero al secondo tavolo, sulla destra, oltre l’ingresso. Ma non è difficile immaginarlo: caponata, rigatoni alle melanzane, involtini... Sono queste le pietanze che si cucinano qui. Trattandosi di clienti italiani, durante la cena chiesi loro come si chiamassero. Cognomi qualsiasi. Ma lui disse ”sono Provenzano”. Scherzando, replicai ”come Bernardo?”. E l’uomo dai capelli grigi: ”...della famiglia”".