L’Espresso 20/04/2006, pag.162 Luca Piana, 20 aprile 2006
Old economy. L’Espresso 20 aprile 2006. Quello che noi italiani facciamo finta di non vedere, gli stranieri lo afferrano al volo
Old economy. L’Espresso 20 aprile 2006. Quello che noi italiani facciamo finta di non vedere, gli stranieri lo afferrano al volo. Lunedì 3 aprile la copertina della rivista londinese "Time" era dedicata a coloro che nel nostro Paese hanno meno di 40 anni: "Quando riusciranno ad emergere?", si domandava. Stessi giorni, medesimo contesto della campagna elettorale con due candidati premier come Silvio Berlusconi (69 anni compiuti) e Romano Prodi (66), anche il settimanale "The Economist" non mostrava dubbi: l’Italia è un "paradiso per gerontocrati", quei vecchi che non mollano il potere. Un fenomeno che per il giornale vademecum del capitalismo internazionale nasconde una debolezza: l’abbondanza di leader anziani è uno dei frutti avvelenati di un’economia stagnante. Mentre da anni l’Italia è in fondo alle classifiche europee delle nascite e dell’occupazione giovanile, alcuni indicatori dicono che la gerontocrazia dilaga. In febbraio la fondazione Glocus, un’organizzazione nata in area Margherita per discutere di modernizzazione, ha pubblicato una ricerca sulla classe dirigente condotta da Giovanni Canepa, 42 anni, responsabile strategie e sviluppo della compagnia telefonica Wind. Canepa ha analizzato fra l’altro l’elenco degli italiani presenti nel "Who’s Who", l’elenco di quelli che nel mondo si presume contino qualcosa. Risultato: se nel 1998 gli ultra sessantenni erano il 46 per cento, nel 2004 erano saliti al 54 per cento. Un invecchiamento al quale si associa un crollo del numero dei recensiti che appartengono al mondo dell’economia: erano 47 su cento nel 1990, si sono ridotti a 18 nel 2004. Un altro dato empirico arriva dall’ultima classifica del quotidiano "Wall Street Journal" sulle 50 donne da tenere d’occhio per il ruolo che possono giocare. L’unica nostra connazionale è la stilista Miuccia Prada, simbolo della moda italiana del mondo. Anche lei con qualche primavera in più rispetto alle due manager della moda presenti nella lista, Angela Ahrendts e Valerie Hermann, numeri uno rispettivamente di Burberry Group e Yves Saint Laurent. Non deve sorprendere che la gerontocrazia italica stupisca gli anglosassoni. La Gran Bretagna, con il suo straordinario mercato dei servizi avanzati e con investitori capaci di finanziare le buone idee, si propone come terra delle opportunità per i capaci. In una recente ricerca la banca d’affari Merrill Lynch ha messo a confronto l’età dei rispettivi imprenditori: in Italia quasi l’80 per cento ha superato i cinquant’anni, in Gran Bretagna il 63 per cento non ha passato i quaranta (vedi grafico a fianco). Risultato: fra le aziende di grandi dimensioni quotate in Borsa, a Londra il 28 per cento sono state fondate dopo il 1990; a Milano poco più della metà. Perché l’Italia, patria della piccola impresa, fallisce nella sfida a chi offre maggiore chance di successo? Dice Guido Corbetta, 47 anni, che insegna strategia delle aziende familiari in Bocconi: "Il primo motivo è un fattore sociale: in Gran Bretagna i giovani escono di casa prima. Secondo: le imprese italiane sono concentrate in settori tradizionali, dove i processi di crescita sono più lenti. Infine da loro la finanza agisce più liberamente con una gamma di strumenti che va dalla quotazione in Borsa all’investimento dei privati". L’impasse gerontocratica riguarda tutti gli aspetti di una società come la nostra, aggrappata ai privilegi piuttosto che ai meriti. E i segni si vedono in ogni campo, dall’università alla televisione, dove furoreggiano Adriano Celentano, 68 anni, Pippo Baudo, quasi 70, e Raffaella Carrà, che ha debuttato al cinema nel 1960. Tuttavia per l’industria la difficoltà di dar vita a nuovi protagonisti è una questione di sopravvivenza. Lo sa bene la Confindustria, che ha collaborato con due direttori della società di consulenza McKinsey, Roger Abravanel (60 anni) e Yoram Gutgeld (47), per definire una terapia choc (confluita nel dossier "Scelte coraggiose per sviluppare un’economia di servizi") contro un rischio colossale: la scomparsa di una fetta importante dell’industria nazionale. I dati sono i seguenti: nel nostro Paese le imprese con oltre 100 milioni di fatturato sono circa 600; la metà sta vivendo la fase critica di un ricambio al vertice: "Ovunque nel mondo il passaggio generazionale è fatale alla maggioranza delle imprese familiari: i figli non possono sempre avere gli stessi talenti dei genitori", spiega Abravanel. Le conseguenze, per un Paese dove faticano a emergere nuove imprese rilevanti, possono però essere nefaste: "Le statistiche dicono che solo una su cinque di queste aziende sopravvive alla terza generazione. Per difendere il nostro patrimonio industriale dobbiamo favorire un cambiamento nel ruolo delle famiglie dei fondatori", continua l’esperto della McKinsey. Il problema non è dunque capire chi comanderà in futuro nelle grandi imprese quotate in Borsa. Queste sono spesso guidate da veterani che esercitano il loro ruolo in virtù dei motivi più vari: l’esperienza, la delicatezza dei rapporti con gli azionisti, la necessità di tenere compatte le dinastie. Gli esempi abbondano: attorno ai settant’anni viaggiano Giovanni Bazoli di Banca Intesa, Enrico Salza del Sanpaolo, Fedele Confalonieri di Mediaset, Piergaetano Marchetti della Rcs; nell’area degli ottanta o più ci sono Antoine Bernheim delle Generali, Gianluigi Gabetti dell’Ifil, Carlo Caracciolo del gruppo "L’espresso". I cambi al vertice, invece, pongono problemi più radicali fra le imprese da sempre chiuse ai manager e agli investitori esterni, dove patrimonio aziendale e della famiglia si confondono. Gli esempi sono numerosi. Molti si chiedono quale sarà il futuro del gruppo Armani, circa un miliardo e mezzo di ricavi, quando il suo creatore Giorgio Armani, quasi 72 anni, deciderà di ritirarsi. Lo stesso accade per l’Esselunga, colosso dei supermercati del Nord Italia con oltre 4 miliardi di fatturato: qualche tempo fa il patron Bernardo Caprotti (81) aveva lasciato maggiore spazio al figlio Giuseppe (45). Qualcosa non deve aver funzionato: un paio d’anni fa Caprotti senior è tornato in prima linea, dopo aver firmato un bilancio 2003 in cui affermava la necessità di "ripristinare quei valori etici e di comportamento sui quali da sempre l’azienda ha basato la sua rinomanza". Non è forse un caso che per Armani e Esselunga il futuro sia aperto e trovino spazio ipotesi di vendita (lo stilista ha parlato di "alleanze" possibili). O che la questione successione possa infine condurre i due gruppi in Borsa, una strada tracciata già per la Sigma Tau: ancora oggi affidata a Claudio Cavazza (72) nei giorni scorsi la casa farmaceutica ha fatto entrare nel capitale Banca Intesa. Il fine dichiarato è sostenere la crescita all’estero e la quotazione; quello sottinteso, probabilmente, fare un passo per separare proprietà e gestione. Non bisogna credere che il passaggio del comando sia sempre una gara a perdere. Dice Paolo Preti, 50 anni, direttore del master Bacconi per le Piccole e medie imprese: "Non bisogna parlare di declino del nostro modello ma di metamorfosi". Sono molteplici gli esempi che gli esperti indicano come casi di successo: l’Italcementi, guidata da Carlo Pesenti (43) figlio di Giampiero (75), si sta lanciando in una nuova espansione internazionale; la Luxottica di Leonardo Del Vecchio (71) si è affidata a un manager esterno, Andrea Guerra (40); l’Indesit di Vittorio Merloni (73) l’ha fatto da tempo e ora l’industriale appare disposto a valutare nuove operazioni di crescita, anche mettendo in discussione gli assetti di controllo. Ma gli esempi non mancano tra le imprese non quotate: il gruppo farmaceutico Zambon è oggi presieduto dalla giovane Elena Zambon; nel tessile biellese, vera aristocrazia delle manifatture italiane, dicono che alla crisi generale abbiano resistito meglio alcuni gruppi guidati da giovani, come la Zegna Baruffa affidata a Massimimiliano Zegna (34). Per il grosso dell’industria, il rapporto McKinsey-Confindustria indica diverse strade: maggiore internazionalizzazione; spostamento delle produzioni all’estero; più servizi; apertura a investitori finanziari come i fondi di private equity che facciano da palestra ai giovani rampolli, affiancadoli nel duro mestiere di amministratore. Dice Abravanel: "Le aziende che sopravvivono al ricambio diventano più forti delle altre. In tutto il mondo molti importanti gruppi - da Walmart a Intel, da Lvmh a Bmw - smentiscono l’idea che l’industria familiare sia il nostro fattore di debolezza". Che cosa cambia allora? Il fatto che l’Italia abbia non il primato delle imprese familiari, ma quello delle imprese familiari che non si sviluppano. La soluzione? "Dare spazio alla meritocrazia: può guidare un’azienda solo chi ha dimostrato di essere il migliore per farlo". Luca Piana