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 2006  aprile 14 Venerdì calendario

L’ultima pazza «corsa all’oro» I nuovi ricchi sventrano la Terra. La Stampa 14 aprile 2006. Si incontrano alla Borsa di Londra due volte al giorno, alle 10 e alle 15

L’ultima pazza «corsa all’oro» I nuovi ricchi sventrano la Terra. La Stampa 14 aprile 2006. Si incontrano alla Borsa di Londra due volte al giorno, alle 10 e alle 15. Sono in cinque e rappresentano i mercanti d’oro più importanti del mondo, ovvero Johnson Matthey, Mocatta & Goldsmith, Samuel Montagu, Rothschild e Sharps Pixley. Si esprimono a gesti imperscrutabili per i profani e fissano il prezzo dell’oro. L’appuntamento si ripete uguale dal 1919: l’ultima volta che si sono visti, ieri pomeriggio, hanno decretato che un’oncia (ovvero 31,1 grammi) d’oro vale 593 dollari. Il mercato del metallo giallo è così, poca tecnologia e una tradizione lunga quanto la storia dell’uomo. Niente a che vedere con le altre materie prime, a cominciare dal fatto che l’oro non si consuma: gli impieghi pratici, l’elettronica e la medicina dei denti, incidono poco o nulla sul prezzo. L’oro si può solo guardare e ostentare, custodire o rivendere. E l’ultimo è l’unico caso in cui rende qualcosa. Dopo il record storico del 1980 (847 dollari l’oncia) s’era preso vent’anni abbondanti di pausa, negli ultimi cinque ha ricominciato a correre. Nel 2001 era sceso fino a 260 dollari: l’indice è tornato a puntare verso l’alto dopo l’11 settembre e l’attacco alle Torri Gemelle, com’è sempre accaduto nella storia dell’uomo quando gli equilibrii del mondo cominicano a vacillare. Prima d’allora il mercato dell’oro sembrava destinato a un declino inesorabile. Ne è rimasto troppo poco nelle viscere della terra, ed estrarlo costa sempre di più: a 340 dollari l’oncia era inevitabile, ai prezzi del 2001, dichiarare l’industria fallita. D’altra parte, secondo i calcoli degli esperti, per ricavare un’oncia d’oro bisogna sbriciolare 27 tonnellate di roccia. Anche l’ambiente paga un dazio salato: il materiale scavato in miniera viene innaffiato con una soluzione di cianuro che separa l’oro dal resto per reazione chimica. Nell’autunno scorso, una provincia delle Filippine ha fatto causa alla canadese Placer Dome (quinto produttore mondiale d’oro): l’accusa di aver inquinato un fiume, una baia e la barriera corallina. Inutile aggiungere che i filippini chiedono d’esser risarciti a peso d’oro. E che un loro successo aprirebbe la strada a centinaia di cause analoghe. Tanto che un altro produttore, lo statunitense Newmont, ha pagato 30 milioni di dollari pur di chiudere in amicizia una lite analoga con l’Indonesia. I presupposti per frenare la corsa all’oro, insomma, sembravano esserci tutti. E invece s’è fatto dietrofront. Gli analisti esperti in materie prime ci hanno messo un po’ a capire il motivo del rinnovato fascino del metallo giallo: non risultano esserci Paesi che abbiano ricominciato ad accumulare riserve auree in quantità tali da giustificare il contraccolpo sul mercato, anche perchè si calcola che nelle casse delle banche centrali degli Stati riposino 60 mila tonnellate di lingotti, circa metà di tutto l’oro estratto nella storia dell’umanità. Dopo qualche mese d’indagine, la causa è stata individuata nei centri commerciali di Shangai e Mumbai. Cina e India, le economie rampanti, i paesi dove anno su anno nuovi nomi si aggiungono alla lista dei più ricchi. Parvenu del club dei miliardari che - spiegano gli analisti - amano l’oro per ragioni contingenti: i loro governi non hanno ancora dimostrato d’esser capaci di garantire nel lungo periodo la proprietà privata. Gli strumenti di investimento sono pochi, niente a che vedere con la raffinatezza del mercato finanziario europeo o americano. La memoria di capovolgimenti improvvisi che costringono intere popolazioni a fuggire col malloppo è ancora fresca - casi nei quali nulla è trasportabile e cambiabile ovunque come l’oro - e infine una passione smodata per i gioielli: il mercato, nel 2005, ha segnato +11% in Cina e +47% in India. Capovolgendo l’equazione, l’impennarsi della domanda ha portato, insieme alla crescita dei prezzi, a rivalutare il concetto di convenienza delle operazioni di estrazione. Per l’oro si può lavorare a profondità che nel caso delle altre materie prime sarebbero impensabili: e più il prezzo cresce, più le talpe scavano nella crosta terrestre. In Sudafrica in una delle miniere più profonde del mondo, gli operai scendono a tre chilometri sotto la superficie - trovandosi, a quel punto, un chilometro e mezzo sotto il livello del mare: vent’anni fa una miniera simile era giudicata pronta per il pensionamento. Oggi è tornata in piena attività. Stanno cambiando anche le tecnologie estrattive: il 70% dell’oro viene da paesi del terzo mondo, ma ormai anche laggiù - Filippine e Indonesia insegnano - le amministrazioni locali cominciano a storcere il naso. Specchietti e perline - e neppure i dollaroni - non giustificano più territori avvelenati e popolazioni condannate a morire d’inquinamento. Così le compagnie aurifere hanno cominciato a impiegare un sistema di separazione nuovo - pur se molto più costoso - impiegando un’autoclave. Il sistema ha rimesso in moto la corsa all’oro perfino negli Stati Uniti, nel deserto del South Dakota. Anche in questo caso gli ambientalisti hanno da ridire, però: proprio nel Dakota c’è una miniera che pompa 170mila litri d’acqua al minuto. Nel deserto, per la gioia dei cactus. La caccia al compromesso è aperta, e va di pari passo con le quotazioni del metallo giallo, spinta dalla fame di sicurezza e dalla voglia di rivalsa dei nuovi miliardari. Anche qui, l’economia globalizzata ha detto la sua. Posto garantito, per i cinque signori di Londra. Tutti i giorni alle 10 e alle 15, it’s gold time. Altro che pensione. Marco Sodano