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 2006  aprile 13 Giovedì calendario

Quando un mito fa crack. Panorama 13 aprile 2006. Crede ancora di essere una diva, quando nel cuore della notte entra in una delle case alla periferia di Atlanta dove si radunano i fumatori di crack

Quando un mito fa crack. Panorama 13 aprile 2006. Crede ancora di essere una diva, quando nel cuore della notte entra in una delle case alla periferia di Atlanta dove si radunano i fumatori di crack. Per comprare una dose da pochi dollari Whitney Houston si è messa addosso una pelliccia di visone, al dito che trema accendendo la pipetta ha un anello di diamanti. Quando i cristalli di cocaina prendono fuoco e la droga le arriva al cervello, lei inizia a cantare a se stessa, le mani alzate verso il cielo, e chi riesce a sentirla dice che la voce è ancora quella incredibile di una volta. Ma invece del pubblico che una volta la applaudiva ora ad ascoltare ci sono solo gli spacciatori e i lo ro clienti. «Shut up, bitch!», «Taci, sgualdrina » dice uno di loro, e compone al telefono il numero degli amici della cantante perché se la vengano a riprendere. C’è qualcosa di osceno quando il sogno americano comincia a girare al contrario e a raccontarlo sono i tabloid: il finale è sempre scontato. Per Jimi Hendrix furono i barbiturici, per John Belushi gli speedball fatti di eroina e cocaina, per Kurt Cobain un colpo di pistola in testa dopo avere sfiorato troppe volte l’overdose. Ma nessuna delle morti in diretta dello spettacolo americano somiglia allo show offerto ora da Whitney, la faccia d’angelo ridotta a un teschio da dosi da cavallo di crack, la droga di chi vive nei ghetti delle grandi città americane o di chi quei posti non è riuscito a scrollarseli di dosso neppure dopo avere conquistato il mondo con un acuto impossibile. A quella che una volta era la regina del soul, secondo i giornali americani ora capita di dormire per strada insieme a tossici e senzatetto: è stata scacciata anche dalla casa dove si era rifugiata con un’amica cantante, perché non avevano i soldi per pagare l’affitto. Sua figlia Bobbi Kristina da tempo non abita più con lei, ma con lo zio. E nella sua villa nel quartiere altolocato di Alpharetta è rimasto Bobby Brown, un marito di cui la cantante non si fida più, e non solo perché anche lui è preda della droga: Whitney sospetta che sia stato proprio lui, insieme a sua sorella Tina, a vendere ai giornali americani le foto terribili che Panorama pubblica in queste pagine. «Forse questa intervista le salverà la vita » ha detto la cognata Tina Brown confessando che nel 2004 si fece di crack per 24 giorni di seguito con Whitney. Ma è lecito sospettare che per 200 mila dollari Tina e Bobby Brown abbiano compiuto l’ultimo tradimento, quello di mostrare al mondo il bagno dove Whitney si chiude per giorni tra i cucchiaini consumati dal fuoco, mozziconi di sigaretta, lattine di birra e pile dei giornali che ogni settimana si prendono gioco di lei. Ora che avrebbe veramente bisogno di una guardia del corpo come Kevin Costner, che la proteggeva nel film che nel 1992 l’ha lanciata nel cinema, nessuno le vuole più stare vicino. La modella che a 21 anni debuttò con la canzone Saving all my love for you, vendendo 33 milioni di dischi, è ora una 42enne che nei fumi della droga spesso perde in giro la dentiera che le deve essere rispedita per corriere. L’angelo che imparò a cantare dalla cugina Dionne Warwick e dalla madrina. Aretha Franklin adesso anche quando è sobria stecca, come al concerto che ha dato a Torino per le Olimpiadi. Lei che per sette volte consecutive è stata in cima alla classifica dei dischi, che ha vinto sei premi Grammy, che nel 2001 ha negoziato un contratto che le è valso milioni di anticipo, ora è costretta a chiedere i soldi alla madre Cissy. Che anche se faceva la corista a Elvis Presley, quando lui cantava a Las Vegas gonfio di psicofarmaci, mai aveva visto un tracollo veloce come quello della figlia. Mary J. Blige, la cantante soul che l’ha sostituita nelle classifiche dei dischi, dice che non c’è mai stata nessuna come Whitney: «Tecnicamente è sempre stata la migliore di tutte noi» afferma, ed è sincera. «Sono convinta che ce la farà» aggiunge, ma sa che non sarà facile. Per lei, che ha chiuso con la cocaina, dice, anche grazie alla fede, non lo è stato: nessun manager o discografico durante la sua carriera l’ha aiutata. «Forse» rivela oggi «perché erano stupidi quanto lo ero io e fumavano e bevevano con me». La storia di Whitney con la droga dura probabilmente dal 1994, quando Whitney riuscì ad arrivare con due ore di ritardo alla cena offerta dal presidente Bill Clinton alla Casa Bianca in onore di Nelson Mandela, e una volta seduta si mise a litigare con i camerieri. Ufficialmente la cantante è in crisi dal 2000, quando venne bloccata in un aeroporto alle Hawaii con 15 grammi di marijuana nella borsa. Quello stesso anno Whitney avrebbe dovuto cantare agli Oscar, ma la sua partecipazione venne cancellata dopo che Burt Bacharach la sentì dimenticare le parole alle prove. Un anno dopo Whitney sale sul palco del Madison square garden di New York per un concerto in onore di Michael Jackson, ma il suo corpo è diventato così scheletrico che viene ritoccato digitalmente dai produttori in fase di postproduzione. Ora c’è chi dice che sia tutta colpa del marito, il rapper Bobby Brown, e forse è vero. Prima di conoscerlo, nel 1992, Whitney Houston era una cenerento la nera, dolce e innocente come forse non è mai stata nella realtà, e il ruolo le stava chiaramente scomodo. Ma così la voleva Clive Davis, il discografico che l’aveva scoperta, e che ne ha fatto un’icona della classe media afroamericana in ascesa. Il personaggio simbolo è Savanna Jackson, la donna in carriera che Whitney Houston ha interpretato nel film Donne, tratto dal romanzo di Terry McMillan. Proprio quel film, in cui donne nere di successo avevano a che fare con maschi mediocri, provocò nella comunità degli afroamericani proteste accese, come quelle che talvolta accoglievano Whitney ai concerti. «Oreo» l’avevano soprannominata i suoi critici, dal nome del biscotto che fuori è cioccolato e dentro è crema. Fu anche per non sentirsi più una bianca travestita da nera che nel 1992 Whitney si mise con il rapper Bobby Brown, le cui credenziali da gangster del ghetto devono esserle parse ineccepibili. Prima di incontrarla Bobby aveva già avuto tre figli da due donne diverse, e aveva avuto più di un problema con la giustizia per sparatorie, molestie sessuali e guida in stato di ebbrezza. Uno di quelli che dice con orgoglio: «Sin da piccolo non ho mai sopportato di portare sneaker sporche: al limite me ne andavo a rubare un nuovo paio». Una volta Brown ha urinato in una macchina della polizia. Un’altra è stato fermato mentre cercava di staccare coi denti l’orecchio di un conoscente. A chi le chiedeva perché fosse così affascinata da lui, Whitney rispondeva: «Di solito le sciocchezze si fanno a 20 anni, ma io allora ero in giro a incidere dischi o in tournée: Bobby mi ha insegnato come divertirmi». Il problema è che spesso i due esagerano: tre anni fa Whitney venne ricoverata d’urgenza a Las Vegas perché non riusciva a fermare il sangue dal naso. Nello stesso anno la cantante ammetteva di essere stata picchiata dal marito, ma pochi giorni dopo era in un’aula di tribunale a testimoniare a suo favore. A quel punto Whitney aveva già fatto tutte le mosse considerate abituali per una rockstar in caduta libera. In cerca del perdono del pubblico aveva dato un’intervista di un’ora in televisione che si era però rivelata un boomerang: «Non capisco come la gente possa pensare che fumo crack» aveva detto a Diane Sawyer. «Faccio troppi soldi per abbassarmi così». Poi come si conviene aveva trovato un improbabile guru spirituale, Sar Amiel, rappresentante di una setta di ebrei neri convinti di discendere da una delle tribù dimenticate di Israele. Ci sono stati anche tentativi di sconfiggere la dipendenza, l’ultima volta lo scorso aprile, quando venne ricoverata nella clinica di Antigua fondata dal cantante Eric Clapton. Avrebbe dovuto raggiungerla il marito, che invece si è insediato in un albergo di lusso dell’isola con una cameriera di 19 anni. Al catalogo degli orrori non poteva mancare un reality show, infatti dall’anno passato Whitney e il marito sono protagonisti della serie Being Bobby Brown, distrutta dai critici ma seguitissima dai telespettatori. Non c’è da stupirsi. Nel primo episodio lei ha mezz’ora di ritardo andando a prendere il marito, che è appena uscito di prigione. Quando alcuni fan non lo riconoscono lui dice: «Forse è perché non sono nella mia solita divisa arancione da carcerato». La figlia Bobbi Kristina a un certo punto spiega: «Amo i giorni quando papà è convocato a palazzo di giustizia, perché io salto la scuola». Whitney confessa di russare, poi litiga col marito, e manda a quel paese i fan. Vita da star sull’orlo di un precipizio: la prossima stagione inizia tra poche settimane. Sperando che i protagonisti siano ancora vivi. Marco De Martino