Corriere della Sera, 14/05/2001 Gian Antonio Stella, 14 maggio 2001
«La cosa che mi piace di più è che stiamo già pensando a come uscire degnamente di scena». Chissà se Massimo D’Alema, nella notte interminabile della resa dei conti, ha mai ripensato a ciò che aveva detto, nei giorni del potere, un uomo del suo staff
«La cosa che mi piace di più è che stiamo già pensando a come uscire degnamente di scena». Chissà se Massimo D’Alema, nella notte interminabile della resa dei conti, ha mai ripensato a ciò che aveva detto, nei giorni del potere, un uomo del suo staff. Ancora ieri sera, alla domanda più scomoda e cioè se si sarebbe ritirato in caso di sconfitta, rispondeva:«La politica è la mia vita. Non ci si può ritirare dalla propria vita». E c’era davvero tutta la sua vita, ieri, appesa ai risultati nazionali e a quelli di Gallipoli, la cittadella fortificata dove aveva scelto di trincerarsi. C’era il destino del "suo" partito, dove era cresciuto cominciando da pioniere e guadagnandosi da Palmiro Togliatti quella celebre battuta: «Ma questo non è un bambino: è un nano!». C’era quanto restava della ”sinistra vincente” che aveva contrapposto trionfante a quella «che faceva i tortellini ma perdeva». C’era la sua sfida personale a Silvio Berlusconi, che un giorno aveva liquidato come «una via di mezzo tra Marinho, il padrone della tv Globo brasiliana, e Giancarlo Cito». C’era la sua convinzione di essere lui, prendere o lasciare, l’unico vero leader rosso. Per carità, davanti all’ipotesi di essere buttato fuori dalla Camera così come nell’auspicio del Cavaliere che proprio qui in Puglia l’aveva invitato a cercarsi un lavoro, aveva continuato a fare spallucce prima ancora di avere idea di come sarebbe finita: « agghiacciante l’idea che si possa fare politica solo dentro il Parlamento». Ma proprio lì, in quell’aggettivo un po’ sballato, si poteva intravvedere il nervosismo di chi temeva l’avvicinarsi di una sconfitta storica non solo collettiva, ma personale. Vi ricordate certi reportage nell’età dell’ oro, quando il nostro veniva definito dal quotidiano conservatore Die Welt come «l’uomo forte sul Tevere» ed era omaggiato perfino se rilasciava interviste sul cane, «vivente non umano» e «flusso ininterrotto d’amore»? Arrivava a Gallipoli accolto come fosse Adriano in visita a Gerasa, salutava la folla osannante e in certe serate tiepide, così lontane da questa notte battuta da un venticello che morde le orecchie, distribuiva ai suoi ministri, come capitò a Luigi Berlinguer, il ”premio Barocco” mentre qualche cronista, intinta la penna nella saliva, scriveva cose così: «Il sole splende a Gallipoli. Una tramontana alzatasi nella notte ha allontanato l’afa. La città è splendida per ricevere il suo cittadino più illustre: Massimo D’ Alema. Il quale torna nella sua terra dopo le battaglie...». Non era solo un collegio elettorale, Gallipoli. Era il cuore dell’ epopea dalemiana. Il punto di partenza per la scalata al cielo. Una scena scritta e riscritta. Lui che entra nella stanza di Achille Occhetto dopo la disfatta il 27 marzo ’94 della «gioiosa macchina da guerra» e gli fa: «Mi dispiace: sei tecnicamente obsoleto». Al che l’altro chiede: «Chi lo dice?». «Te lo dice un deputato di Gallipoli». E lì, in quella rivendicazione del seggio conquistato alle sinistre in una terra di tradizioni bianche e democristiane, c’era una fierezza particolare. Politica e marinara. Quella d’un capitano che col suo vascello, lasciato un porticciolo lontano, ha risalito le coste fino a conquistare il grande porto al quale puntava. Da dove era subito salpato, tenendo accanto al timone un vecchio paio di zoccoli che gli portano fortuna (e chissà se li aveva anche ieri...) verso nuovi porti e nuove conquiste. Anni di lustro, anni di lustrini. Il Tg3 spiegava: «Alla commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema spetta il compito di aprire le porte a un Nuovo Rinascimento». Fiora Viola, vedova del compianto presidente della Roma, l’incoronava col premio ”Centurione romanista”. I linguisti soprassedevano al suo vezzo («credo che è... sembra che tu sei...») di fregarsene del congiuntivo. Il socialdemocratico Gian Franco Schietroma avvertiva: «Sarà il Saragat del 2000». I circoli intellettuali alla presentazione di un libro di Luciano Cafagna su Cavour aprivano dibattiti dal tema: assomigliava a D’Alema? Riviste patinate ripercorrevano l’elenco degli illustri allievi della Normale di Pisa dove Egli non si era laureato ma si era comunque messo nella scia di Giovanni Gentile, Guido Calogero, Enrico Fermi. Krizia scriveva al Foglio per smentire d’esser stata amica di Anna Craxi spiegando piuttosto d’aver come «adorata cliente» Linda Giuva, «una studiosa quieta che conduce una vita seria». E perfino nel Polo c’era chi, come ”Pier” Casini, sospirava: «Diciamo la verità: è il più bravo di tutti noi». E per spiegare quanto fossero sciocchi i moralisti di sinistra a storcer la bocca davanti a certe forzature snob, certi mocassini extra-lusso, certe esibizioni (parole di Niki Vendola) da «culto della griffe e dandismo piccolo borghese», Fabrizio Rondolino scriveva, sotto il titolo «Seduzione è buongoverno», che «piacersi è anche un modo per sedurre chi ci guarda, chi ci sta intorno, chi vogliamo o dobbiamo governare. Si tratta di un’antichissima legge del potere». E chiudeva: «Non bastano l’efficacia del buongoverno o una propaganda più o meno convincente: serve anche saper trasmettere serenità. questo l’uso politico della bellezza». E tutto sembra lontano, lontano, lontano, da questa notte di Gallipoli. E monta l’incubo di una catastrofe che rischia di cancellare anche il resto. Come il fegato che il Lider Maximo ebbe nel dire: «I socialisti e i socialdemocratici, sulla questione della libertà, avevano ragione loro». Il coraggio di ammettere che «il movimento comunista, nato da un progetto di liberazione umana, si è rapidamente trasformato, là dove ha conquistato il potere, in una forza oppressiva responsabile di un totalitarismo che si è macchiato di enormi delitti». Anche il Pci è stato parte di questa storia. L’intuizione di puntare su Romano Prodi per costruire la prima alleanza capace di portare al governo la sinistra. La mano ferma tenuta durante la guerra del Kosovo che spinse perfino l’ambasciatore americano Thomas Foglietta ad ammettere: «Nessun presidente del Consiglio avrebbe potuto gestire questa crisi meglio di lui». Tutte cose che, al di là degli errori commessi e delle polemiche roventi che sarebbero divampate nel corso della campagna elettorale, avevano spinto Silvio Berlusconi, quando l’ormai ex presidente del Consiglio era stato acclamato come nuovo presidente dei Ds, a tendere la mano: «La sua elezione mi rende più ottimista e fiducioso. Credo infatti che voglia veramente costruire una forza social-democratica». Per ore, nella notte, Massimo D’Alema ha aspettato di sapere se, avendo comunque deciso di non «ritirarsi dalla propria vita», gli sarebbe stato concesso dalla sorte e dalla gente del Salento di ripartire da deputato o da semplice militante diessino. Per ore, il risultato del suo duello elettoralmente mortale con Alfredo Mantovano, è sembrato in bilico: dentro, fuori, dentro, fuori. «Né io né il presidente Cossiga», disse un giorno con l’aria che ha quando non riesce a tenere a bada il suo complesso di superiorità, «ci occupiamo di poltrone». Quella poltrona da deputato, però, era diventata in queste settimane, per lui e per gli altri, assolutamente centrale. Ci aveva scommesso lui, sfidando il suo stesso partito e la sorte nel rifiuto d’una copertura proporzionale. Ci avevano scommesso gli altri, alla ricerca dell’umiliazione che gli togliesse di torno un avversario fra i più tosti. Come sia finita lo sapete. Cosa abbia imparato lui, da questa battaglia in cui è riuscito a coinvolgere Gianni Morandi e Roberto Benigni, Fabio Fazio e Sabina Guzzanti ma senza riuscire mai a superare del tutto quel senso di orgogliosa solitudine che tanto gli ha dato e tanto gli ha fatto perdere, avremo modo di vederlo. Gian Antonio Stella