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 2006  aprile 08 Sabato calendario

Il Berlusconismo detiene oggi l’egemonia culturale nel nostro Paese. indispensabile prenderne atto nel giorno che potrebbe segnare democraticamente la fine del dominio politico del suo capo carismatico

Il Berlusconismo detiene oggi l’egemonia culturale nel nostro Paese. indispensabile prenderne atto nel giorno che potrebbe segnare democraticamente la fine del dominio politico del suo capo carismatico. Questa egemonia è stata organizzata da intellettuali organici e ancora oggi vige anche grazie a una leadership intellettuale, in perfetta fedeltà al modello proposto dalla teoria dell’egemonia gramsciana. Berlusconi è, da questo punto di vista, l’autentico erede dell’insegnamento di Antonio Gramsci. Il constatarlo dalle pagine del quotidiano che proprio da Gramsci fu fondato, mi pare un utile paradosso. La leadership intellettuale della destra berlusconiana, consolidatasi in Italia negli ultimi vent’anni, durerà, infatti, anche dopo la sconfitta politica di Silvio Berlusconi. Perché, è bene ribadirlo, oggi in Italia, per quanto la sinistra colta coltivi ancora un malinteso senso della propria superiorità intellettuale, gli intellettuali dominanti appartengono all’orbita della destra berlusconiana. Suonerà come una mera provocazione, ma non lo è. A pagina 138 di La vera storia italiana, l’opuscolo propagandistico di Forza Italia, figura una scheda riassuntiva del pensiero di Gramsci. Fa parte di una striscia in cui si mettono a confronto due pensatori antagonisti, uno buono e uno cattivo (il berlusconismo è tanto manicheo e dozzinale sulle sue superfici quanto amorale e sofisticato nelle sue profondità). Gramsci appartiene ai cattivi, ovviamente, ma la sintesi della sua filosofia della prassi offerta dall’opuscolo delinea perfettamente la linea strategica adottata dal berlusconismo per impossessarsi del potere: «La presa rivoluzionaria del potere si realizza non necessariamente attraverso la forza ma piuttosto tramite la capacità di direzione ideale delle classi alleate subalterne che abitualmente sono soggette al controllo di alcuni apparati coercitivi, come la Chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, il cinema, la scuola. È allora necessario che una classe in ascesa eserciti un’egemonia su questi poteri e tenda in questo modo a diventare classe dirigente già prima di conquistare il potere». Quale migliore descrizione del percorso attraverso il quale Berlusconi ha preparato la presa del potere plasmando a propria immagine con le sue televisioni la cultura popolare italiana a partire dai primi anni ’80? Rispetto a Gramsci, cambia solo il fatto che gli apparati coercitivi sono divenuti persuasivi e che il sistema integrato dei media li ha sostituiti tutti. Al di là di ogni recriminazione contro il presunto carattere illecito o antidemocratico del potere berlusconiano, è necessario comprenderne l’aspetto consensuale. Oggi più che mai. Bisogna cioè tenere fisso lo sguardo sul modo in cui il controllo viene raggiunto grazie a istituzioni che creano e diffondono strutture cognitive affettive che filtrano la percezione della realtà sociale. Soltanto così si comprende come il berlusconismo sia stato, non una degenerazione minoritaria ma, al pari del fascismo, l’autobiografia di una nazione. Negli anni ’80 a organizzare il consenso spontaneo delle grandi masse popolari all’indirizzo iperconsumistico impresso alla vita sociale dal gruppo dominante furono pubblicitari ed esperti di marketing aziendale. Nella fase del berlusconismo maturo è emersa, però, una nuova leadership intellettuale, sempre legata alle professioni della comunicazione (per lo più al giornalismo), ma anche erede della ”cultura alta” tradizionalmente intesa. Si tratta comunque di un intellettuale senza opere (quantomeno senza opere significative) poiché la sua azione si esalta e si esaurisce nell’efficacia comunicativa. un intellettuale senza opere, un’opera senza pensiero, un pensiero senza contenuti, una comunicazione senza messaggio. La comunicazione trionfante mira, infatti, al dissolvimento del messaggio non attraverso il suo occultamento ma attraverso la moltiplicazione esorbitante di tutte le sue varianti. L’ideologia superiore di questo nuovo intellettuale egemone è, insomma, l’opinionismo. Mettendo in scena il teatro delle opinioni si tratta di sottrarre terreno alla verifica e alla prova, di far cadere l’aspetto concettuale, di fondare un potere sugli affetti retorici e sulla vertigine sensoriale, di indire plebisciti sui consumi. Il risultato è uno strano ibrido di populismo ed elitarismo: tenere il popolino nella sua condizione di minorità intellettuale, celebrandone l’ignoranza come nuova forma di civiltà espressa dalla cultura di massa, al fine di conservare il potere nella mani di un oligarchia, di una ristretta élite di ottimati della comunicazione. Un’élite che coglie nel cinismo l’unico frutto ancora offerto dall’albero della conoscenza. Un’élite assisa sull’olimpo del proprio cinismo a osservare giù in basso l’avanspettacolo comico della credulità popolare. Cinismo o credulità. Così si riformula oggi l’alternativa tra conoscenza e ignoranza. Il gran sacerdote di questa nuova casta di intellettuali è indubbiamente Giuliano Ferrara. A quanto mi risulta, Ferrara non ha mai scritto un libro (ricordo soltanto una sua lunga introduzione a Leo Strauss e un minuscolo pamphlet) ma sarebbe ingenuo rimproverarglielo: l’assenza di opere è una manifestazione quasi snobistica della sua egemonia. La splendida sintassi di cui, sera dopo sera, Ferrara dà prova con l’impermanenza della parola orale nel suo salotto intellettual-televisivo, quella sintassi suntuosa è la superiore cornice articolatoria in cui si inserisce ogni nostra affermazione nella sfera del discorso pubblico. L’influenza enorme che il suo giornale senza lettori ha negli ambienti professionali dei giornalisti è una prova di forza, non di debolezza: indica che oramai la sfera pubblica si è appiattita sull’unica superficie della comunicazione giornalistica, la densità del dibattito intellettuale è svaporata nelle correnti d’opinione degli influssi televisivi. La sua maestria di signore dei venti brilla più che mai quando, di tanto in tanto, interrompe l’analisi dell’attualità sociopolitica per presentare la letteratura in prima serata. I suoi scrittori prediletti servono sempre la strategia del populismo elitaristico: sono o autori di romanzi commerciali di massa presentati come raffinati scrittori (Faletti) o raffinati ideologi di impronta conservatrice-reazionaria lanciati come autori di romanzi per le masse (Piperno, Buttafuoco). I nuovi intellettuali egemoni sono lì, alla corte degli opinionisti di Ferrrara. Non importa a quale destra professino di appartenere (cattolica, moderata, fascista etc.). Alla corte televisiva di Ferrara appartengono tutti alla destra berlusconiana. Da questo punto di vista, Giuliano Ferrara è l’ultimo critico letterario del Novecento. Prolunga la genìa di quei critici che non scrivevano romanzi ma erano più bravi dei loro scrittori perché costringevano i libri che elogiavano a produrre significati soltanto concatenandosi al loro discorso di ordine superiore. Completano il quadro l’opera di sistematico revisionismo storico-ideologico condotta dalle terze pagine dei principali quotidiani e il marketing giornalistico sapientemente applicato al prodotto culturale. Un libro viene lanciato esclusivamente in base alle sue caratteristiche extraletterarie. Lo si decompone nei suoi ingredienti comunicabili come un piatto di cucina destrutturata e lo si serve al lettore gastronomo. Oppure lo si galvanizza in una spuma evanescente alla Ferran Adrià. un caso esemplare della legge per cui, oramai, la comunicazione determina il prodotto: presto si scriveranno e pubblicheranno soltanto i libri comunicabili secondo la lingua del marketing. Comunicazione e mercato Nel punto in cui il meridiano della comunicazione interseca il parallelo del mercato si colloca l’egemonia intellettuale della destra berlusconiana. Quel punto è qui, ora. D’altra parte, a sinistra, inneggiamo a Moretti perché ha raccontato un grande dramma politico e sociale con un piccolo melodramma sentimentale privato e ci compiacciamo di una generazione di giovani narratori che esibiscono con orgoglio il loro basso profilo intellettuale. Ma nessun compianto di sé. Niente è perduto. Tanto meno la battaglia per la cultura popolare. A patto di ricordarsi, con Gramsci, che, tra un giroconto e un girotondo, si è anche chiamati a combatterla. Antonio Scurati