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 2006  aprile 07 Venerdì calendario

Beckett, la voce muta del Novecento a cento anni dalla sua nascita, La Repubblica venerdì 7 aprile 2006 Ogni inizio conta, è radice

Beckett, la voce muta del Novecento a cento anni dalla sua nascita, La Repubblica venerdì 7 aprile 2006 Ogni inizio conta, è radice. Ma c´è anche chi vuole decidere la propria nascita; chi, non sempre per libertà, si strappa dalla prima radice, ne sceglie un´altra. Così, se in senso anagrafico, l´origine per Samuel Beckett è un paese, l´Irlanda; e una lingua, l´inglese, è anche vero che in entrambe si sente straniero e viene a Parigi, per nascere una seconda volta e scrivere in un´altra lingua. Irlandese, ma atipico, protestante in un paese cattolico, ricco in un paese povero, inverte la rotta dei proprii antenati ugonotti, i Becquet, che nell´isola erano sbarcati per cercare scampo. Così, fuggendo, ritrova un´origine più antica, che lo congiunge alla famiglia paterna, al di là della madre amata e odiata; perché se sceglie di venire in Europa per sempre è anche per purgarsi delle tremende ansie matricide, e del desiderio cupo che lo lega a quella donna indimenticabile. Della sua nascita dà differenti versioni, rivelando da subito quanto gli piaccia l´equivoco, o comunque quanto ami intralciare la comunicazione. A sentire lui, sarebbe nato il 13 aprile 1906, venerdì santo. La data è sinistra e forse per questo la sceglie: si intona alla passione del suo corpo magro di figlio crocefisso alla croce materna. Il certificato di nascita porta la data del 14 giugno, il padre registrò l´evento il 14 giugno; due mesi e un giorno aspettò per annunciare al mondo la sua venuta. Forse per non compiere un gesto inutile? A quei tempi nascere non bastava, bisognava sopravvivere; e i genitori apprensivi e guardinghi di Samuel evidentemente attesero... O se ne dimenticarono? Non si sa. Però, il tema dell´attesa emerge come uno dei più intriganti, dei più appassionati, nella fantasia del figlio. Forse è quell´attesa, o quell´oblio, che rimprovera loro molti anni dopo, quando li piazza in un due bidoni della spazzatura: «Mio padre? (pausa) Mia madre?(pausa) Il mio... cane?». La madre May somiglia a Samuel: ha gli stessi occhi celesti, lo stesso naso, il portamento altero. come lui alta e magra. Il padre invece è corpulento, giovale. «La mia è stata un´infanzia felice, anche se ho avuto sempre poco talento per la felicità», afferma. Poi aggiunge: «Mio padre non mi picchiava, mia madre non è mai fuggita di casa». Non dice che a fuggire era il padre, e a picchiarlo la madre. Passa molto tempo da solo, legge voracemente. Cresce divorando Dante, Descartes, Baudelaire, Rimbaud. Per inseguire una carriera accademica si trasferisce a Parigi, dove esercita la professione di lettore di inglese. Poi torna a Dublino e comincia a insegnare al Trinity College. Le sue lezioni si dice fossero dei lunghi silenzi. Muto, feroce all´aspetto, selvatico, le allieve raccontano come passasse lunghi minuti assorto in remote visioni; guardava di là dalla finestra, dando loro le spalle. (Non è ancora bello come diventerà dopo. Bello, intendo dire, come certi monaci, o santi; quella bellezza che il nostro pittore Tullio Pericoli ha saputo catturare con icastica perfezione nei ritratti che gli ha dedicato). Qualcuna di loro pensò che fosse timido. Forse per timidezza evitava di incrociare lo sguardo di chi, in quanto allievo, aveva tutto il diritto di pretendere che gli si rispondesse. In molti pensarono che a lui non interessava comunicare. Punto e basta. Tanto che a un certo punto si congedò. La verità è che non poteva vivere lì, con la madre. Non è in grado di farle fronte, si sente davanti a lei come "il vitello" coi suoi "castratori". Finché dopo una notte di crisi violenta, abbandona di scatto quel che temeva non avrebbe mai saputo lasciare. Si trova solo sul molo di Dublino, il vento gelido sulla faccia, il freddo gli ghiaccia le vene, e lui vede "la cosa intera". Racconterà di questa notte memorabile anni dopo, descrivendola come una epifania di sé a se stesso: sarà sempre un depresso, un uomo malato; solo se accetterà il lato oscuro di sé, se lo farà lavorare al suo servizio, vivrà: questa è la strada. Fatto sta che il 1 ottobre 1937 Sam è su una nave che lo porta a Parigi. Della madre abbandonata dice: «Non le auguro né bene né male, non la voglio più né vedere né sentire». E di sé riconosce di essere un cattivo figlio. Più precisamente confessa: «Sono ciò che il suo amore selvaggio ha fatto di me». A Parigi gli capitano varie cose, non tutte piacevoli. Una notte un ruffiano di strada dal nome Prudent lo accoltella. Una fanciulla di nome Suzanne lo salva. Con lei al suo fianco si dà alla macchia, affronta la guerra e la Resistenza. Di giorno taglia la legna, raccoglie patate nei campi, la notte scrive. E così via... Insomma è qui, a Parigi, in questi anni, che il "magnifico pazzo irlandese" (così lo chiama Joyce) diventa il Beckett che conosciamo e cioè, le sue opere. Le quali nascono in quanto secrète - dal verbo secernere - da un corpo malato. Uno scrittore è - questo Beckett non finisce di dimostrarlo - un uomo malato. Non può vivere, non può amare: scrive. Ma scrivere non migliora nulla; l´unica cosa che a lui personalmente accade (e non è poco, ma è poco), è che scrivendo incontra la sua difficoltà, la tratta, la manipola; dell´aria circola e una certa grazia per un istante solleva il peso dell´esistenza. Ma le opere, buone o cattive, non servono a nulla; non c´è mercato delle indulgenze nel teatro o nei romanzi beckettiani; tra i tanti peccati, non c´è quello di simonia. La dannazione è assoluta. «L´andar su che porta?», si era chiesto Belacqua, ben sapendo che «l´angelo di Dio che siede in su la porta», gli avrebbe sbarrato l´accesso al Paradiso. Quella domanda dantesca si insedia nella mente di Beckett, insieme a un´altra: come stare in questo Purgatorio, che è il mondo, dando per scontata non solo la colpa dell´esistenza, ma l´impossibilità della salvezza? Non a caso del trio sulla croce a Beckett interessa soprattutto quel ladrone che secondo la buona novella di Luca fu salvato, quasi fosse, quel ladrone, il capostipite di quella genia di eroi vagabondi e ridicoli che appunto da Belacqua Shuah prosegue in Murphy, Watt, Mercier e Camier, precursori tutti di Vladimiro e Estragone. una nuova specie d´uomo che Beckett partorisce, uno strano angelo e demonio, che prende via via le fattezze composite di Buster Keaton, Charlie Chaplin, con sullo sfondo sempre il Belacqua dantesco e i due ladroni. Sono creature angeliche e dannate insieme, pietose per l´estrema indigenza che fa loro custodire una scarpa come fosse un tesoro. Non hanno nulla, eppure sono voraci. Grotteschi, ridicoli, sopravvivono alla vita stessa, rendendo insignificante il limite tra vita e morte. Non hanno nulla da dire, ma insistenti, petulanti, crudeli parlano anche semplicemente coi gesti, il silenzio. Non c´è nessuno come loro, eppure sono tutti noi, inchiodati alle leggi insensate di una esistenza che condanna il vivente all´inautenticità; tutti servi di un bene, la vita stessa, che si può allo stesso tempo, perversamente, volere, e rifiutare. Nadia Fusini