La Repubblica 06/04/2006, pag.43 Siegmund Ginzberg, 6 aprile 2006
Un islamico per Reagan. La Repubblica 6 aprile 2006. L´ultima volta che un presidente americano citò entusiasticamente un pensatore islamico, era un quarto di secolo fa
Un islamico per Reagan. La Repubblica 6 aprile 2006. L´ultima volta che un presidente americano citò entusiasticamente un pensatore islamico, era un quarto di secolo fa. Il presidente era Ronald Reagan. Il pensatore Ibn Khaldun, di cui ricorre quest´anno il seicentesimo dalla morte. Il passo, dai Muqaddimah, l´«introduzione alla storia universale», suonava: «All´inizio di una dinastia si ottenevano grandi gettiti fiscali da piccole aliquote. Alla fine di una dinastia si ottengono magri gettiti da alte aliquote». A Reagan, la dotta citazione trovatagli dai suoi speech-writers serviva d´appoggio alla politica di riduzione delle tasse e alla tesi che meno tasse, incoraggiando l´attività economica, avrebbero portato maggiori, non minori entrate. Il fino allora pochissimo conosciuto filosofo maghrebino del 1300 divenne una instant celebrity della supply side economics. Ci fu, tra gli economisti, chi fece di Ibn Khaldun il primo grande teorico fiscale, addirittura un precursore delle tesi che Arthur Laffer avrebbe rappresentato matematicamente nella sua celebre «curva». In effetti, alcune di quelle pagine, scritte quando praticamente la «scienza triste» dell´economia non esisteva ancora, suonano di attualità impressionante: «Bisogna sapere che le finanze di un governante si possono incrementare, e le sue risorse finanziarie si possono migliorare solo mediante il gettito dalle tasse. E questo si può migliorare solo trattando equamente la gente che dispone di proprietà, e con riguardo, di modo che aumentino la loro speranze, e siano incentivati a far fruttare e crescere il loro capitale. La qual cosa, a sua volta, aumenta le entrate fiscali di chi governa» (Muqaddimah, Libro III, cap. 35). Quando «le imposte aumentano, oltrepassando i limiti della moderazione. i sudditi non hanno più alcun interesse a dedicarsi alle attività economiche... ne risulta un abbassamento del gettito fiscale... Spesso di fronte a questo abbassamento i governanti aumentano ancor di più le imposte, credendo di compensare così le minori entrate, ed è lo Stato a subirne le conseguenze nefaste, poiché sarebbe esso il primo a beneficiare delle attività economiche». Invece «dobbiamo sapere che il miglior modo di incoraggiare le attività è diminuire il più possibile il tasso di imposta, di modo che la gente abbia l´ardore dell´intrapresa, sicuri di trarne profitto». Certo, nell´America di Reagan, si tendeva a farne un uso propagandistico: si dava per assiomatico che la sinistra tassa e spende, la destra riduce tasse, spese e deficit. Le cose forse non stanno proprio così, sono un po´ più complesse. Molto prima di Reagan era stato un presidente democratico, «di sinistra» diremmo per comodità, John Kennedy a sostenere che «la scelta non è tra la riduzione delle tasse da una parte e l´evitare un largo deficit dall´altra. un´economia irrigidita da alte aliquote non produrrebbe reddito sufficiente ad equilibrare il bilancio, così come non produrrebbe abbastanza posti di lavoro e profitti». Mentre può capitare ad un presidente «di destra», l´attuale erede di Reagan, George W. Bush, di ritrovarsi con spese e deficit record. Senza contare che l´altro aspetto di «modernità» che colpisce in Ibn Khaldun è la centralità del lavoro come produttore di ricchezza. Lavoro libero, ben retribuito. Perché «tra le misure più oppressive, e quelle che più profondamente danneggiano la società, c´è il costringere i sudditi a compiere lavoro forzato ingiustamente. e se (i lavoratori) fossero costretti a fare lavori diversi da quelli per cui sono stati formati, o costretti al lavoro forzato nel loro mestiere, perderebbero il frutto del loro lavoro». Aveva a che fare ai suoi tempi con gli schiavi, non i precari. In particolare se la prende con coloro «usano il loro dominio e la loro autorità politica per saccheggiare», coloro che «non si curano delle leggi», e coloro che «costringono gli artigiani e gli operai a lavorare per loro, ma il loro lavoro gli sembra senza valore». Perché se il lavoro «non viene apprezzato e retribuito. la gente non vorrà più lavorare. e una civiltà finisce per disgregarsi» (Muqaddimah, III, 25). Tra gli storici dell´economia c´è chi ha creduto di riconoscere in Ibn Khaldun un anticipatore di Adam Smith e David Ricardo, delle teorie classiche del valore-lavoro sino a Marx e a Sraffa (Peter Schumpeter arrivò a ritenere che fosse «più originale» di Smith). Vi hanno trovato i semi della teoria dell´offerta di Malthus e Hicks, persino della funzione e dell´effetto «moltiplicatore» dei consumi individuato da Keynes. Vi hanno trovato embrioni di teorie della moneta e dell´inflazione, di politica dei redditi (può succedere che «operai, artigiani e professionisti diventino arroganti, il loro lavoro diventa caro, e la spesa degli abitanti della città cresce»), del welfare, della crescita («Reddito e spesa si bilanciano in ogni città. Se il reddito è grande, la spesa è grande, e viceversa. E se sono grandi sia reddito che spesa gli abitanti sono più favorevolmente disposti, e la città cresce»), del commercio internazionale, dello sviluppo ineguale, degli usi e degli abusi della spesa pubblica. C´è chi lo considera il padre della sociologia. Non ha trascurato il ruolo economico e sociale della «buona reputazione», del «prestigio legato al rango, della «clientela» («la gente cerca di stare vicina a coloro che sono in alto loco, quel che gli danno in termini di lavoro o denaro è la contropartita dei numerosi vantaggi che ne ricavano o degli inconvenienti che evitano grazie al prestigio dei loro protettori», Muqaddimah, V, 6). Molti altri sono rimasti affascinati dalla sua filosofia della storia. Arnold Toynbee sosteneva che i suoi Muqaddimah sono «senza dubbio la più grande opera del genere che sia mai stata creata da qualsiasi mente in qualsiasi tempo e luogo». La sua concezione dei cicli per cui gli imperi e le nazioni crescono e poi inevitabilmente decadono lo ha fatto considerare un antesignano dei «corsi e ricorsi» di Giovanbattista Vico e di Karl Marx. Altri, più di recente, lo hanno letto come il primo entusiasta della «globalizzazione». Esagerato? Probabilmente. Per geniale che potesse essere era un uomo del suo tempo. Ma non sono molti gli autori di sei secoli fa in cui si possano trovare tante suggestioni su temi della nostra attualità, e i più disparati. Gli si può rimproverare che le sue conoscenze dell´Occidente cristiano sono scarse, e improntate soprattutto ai classici greci e latini. Che la sua geografia è approssimativa. Che cade in stereotipi sui mondi che non conosce («abitano in caverne, mangiano erba, vivono in isolamento. si mangiano l´un altro» è ad esempio il modo in cui parla degli slavi, vale a dire dei russi). Ma conosce l´Oriente, fino alla Cina, meglio di quanto lo conoscesse qualsiasi europeo suo contemporaneo, era stato ambasciatore presso Tamerlano. Può far storcere il naso il suo «islamocentrismo», alla stregua in cui a qualcuno dà oggi fastidio l´«eurocentrismo» o l´«americacentrismo», ma il mondo islamico era allora in fin dei conti quel che è l´Occidente oggi. Prima di perdere il passo (come, secondo la filosofia di Ibn Khaldun, succede prima o poi a tutti, anche i migliori). Arabo che ha conosciuto molti mondi (era nato a Tunisi, visse in Egitto, la sua famiglia veniva da Cordova e Siviglia, cuore dello splendore tollerante di El-Andalus, dove vivevano in ottimo rapporto con gli ebrei), intravede con impressionante lucidità (e straordinario anticipo, se si considera che la potenza turca appena si affacciava) gli embrioni di quello che poi non avrebbe funzionato. Distingue tra coesione sociale, di gruppo (il concetto di Asabiya, tradotto spesso come «spirito di corpo», «solidarietà», «coscienza di gruppo» o di etnia, di tribù, di setta, di classe) e nazionalismo gretto che porta anche i grandi imperi alla perdizione. Nota che «gli arabi possono mantenere l´autorità solo facendo uso di qualche colorazione religiosa». Studia il ruolo di quello che oggi chiameremmo fondamentalismo o estremismo («la maggior parte degli uomini che adottano tali idee si rivelano illusi o pazzi, o imbroglioni che le usano per acquisire leadership politica»). Deride astrologi e ciarlatani. Parteggia apertamente per quello che oggi diremmo l´islam «moderato». Conosce in profondità il mondo islamico, a leggere il capitolo su sciiti e sunniti della Muqadimmah si imparano più cose su Iraq e Iran che in una biblioteca di studi specializzati di oggi. Ha simpatie «cosmopolite» (dire «occidentalizzanti» sarebbe anacronistico). «Strano che i più dotti tra o musulmani che hanno eccelso nelle scienze religiose o intellettuali siano, con rare eccezioni, non arabi, e anche quelli di discendenza araba parlassero una lingua straniera», arriva ad osservare. Denuncia gli estremisti che avevano acquisto il controllo su el Andalus su una piattaforma di puritanesimo zelante, irride persino il califfo che pretendeva di radere al suolo le piramidi («non ebbe molto successo»). Consigliava i potenti, aveva cercato di fare carriera nell´amministrazione prima di ritirarsi agli studi. Non la passò sempre liscia. Nel 1357 fu gettato in prigione. Riuscì a farsi liberare scrivendo al sovrano un lungo poema. La letteratura vinceva allora anche le fatwa. Si ritirò negli studi, per tramandarci quella che, senza falsa modestia, definisce «un´impresa senza precedenti», un tentativo di sviscerare «il significato interno della storia, la sottile spiegazione delle cause e origini dell´esistente, e una conoscenza profonda del come e perché dietro gli eventi» (Muqaddimah, I, 2). Siegmund Ginzberg