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 2006  aprile 06 Giovedì calendario

Universi Uno, nessuno, centomila. La Stampa 6 aprile 2006. Fino a qualche tempo fa l’opinione comune era che ci fosse un solo universo: quello che vediamo

Universi Uno, nessuno, centomila. La Stampa 6 aprile 2006. Fino a qualche tempo fa l’opinione comune era che ci fosse un solo universo: quello che vediamo. Altri scenari non erano neppure presi in considerazione. La stessa parola universo implica l’unicità. Poi alcuni scienziati hanno fatto notare che per ottenere «questo» universo è necessario che una ventina di costanti fisiche - forza di gravità, carica dell’elettrone, velocità della luce... - siano in perfetto accordo tra di loro: altrimenti la materia non sarebbe stabile, non si formerebbero stelle, senza stelle non avremmo gli elementi chimici necessari per dare origine alla vita e così via. La probabilità che si crei «questo» accordo tra le costanti fondamentali è minima: meno di una su 10 elevato alla duecentoventesima potenza. Praticamente, zero: per farsi un idea di quanto grande sia il numero 10 alla duecentoventesima basta ricordare che tutte le particelle atomiche che costituiscono l’universo sono soltanto 10 alla ottantesima. Visto così, il cosmo è un po’ come un cono in equilibrio sulla punta: qualcosa di estremamente improbabile. Un miracolo del quale noi saremmo altrettanto improbabili testimoni. Dovremmo sentirci privilegiatissimi vincitori di una straordinaria lotteria cosmica (se gestita dal Caso o da Dio, questo è un altro problema). Di qui il passo - scientificamente controverso - verso il cosiddetto «principio antropico»: se l’universo è così speciale, ci sarà un motivo, e questo motivo è la nostra esistenza di esseri pensanti. Nella sua formulazione più forte, il principio antropico afferma che l’universo è fatto così proprio per sviluppare la vita intelligente e giungere, tramite l’umanità, a una propria autocoscienza. La parentela tra principio antropico e «disegno intelligente» (versione «debole» del creazionismo) è abbastanza chiara. Il principio antropico ha trovato difensori in fisici autorevoli, come l’americano Frank Tipler della Tulane University (New Orleans) ma non convince la maggior parte della comunità scientifica. A molti sembra una nuova versione della vecchia visione geocentrica precopernicana. Con il principio antropico l’uomo torna ad essere il centro di tutto, e la cosa appare un po’ troppo provinciale. C’è un modo per uscirne: immaginare che esista un numero infinito di universi. In questo caso, su infinite possibilità, non è affatto strano che ci sia anche un universo come il nostro. Anzi, è necessario che ci sia. In una lotteria con infinite estrazioni, prima o poi verrà fuori dall’urna anche il nostro biglietto. Non solo, dato che stiamo parlando di infinito, nulla vieta che esistano innumerevoli repliche dell’universo che ci ospita. Il concetto di infinito non bada a spese, alla sua lotteria tutti prima o poi diventano miliardari. Ecco quindi svilupparsi la teoria del multiverso, cioè dei molti, degli infiniti universi. Ci si può arrivare per varie strade. Per esempio, John Wheeler, uno dei massimi fisici teorici, ipotizza che l’universo, terminata la fase di espansione che sta attraversando dopo il Big Bang, possa crollare su se stesso in un Big Crunch per poi rimbalzare in un nuovo Big Bang, e così all’infinito: basterà allora aspettare un tempo abbastanza lungo e avremo un numero illimitato di universi. Lee Smolin, altro fisico teorico americano, ipotizza che ogni buco nero in cui terminano la loro esistenza le stelle più massicce possa creare un baby universo in grado di espandersi fino a dare origine a un cosmo completo, che a sua volta potrebbe generare un gran numero di universi attraverso i propri buchi neri. Ogni baby universo avrebbe leggi fisiche proprie, con una quantità di varianti illimitata. Anche l’idea che il Big Bang sia stato generato da una fluttuazione casuale del vuoto quantistico legata al Principio di indeterminazione di Heisenberg rende possibili infiniti universi. E in generale più la fisica va verso teorie di unificazione potenti, come quella delle «superstringhe», più si imbatte in situazioni che comportano una molteplicità di universi. E’ vero che questi universi non potranno mai comunicare tra loro e che la velocità finita della luce fa sì che comunque noi vivremo sempre «come se» l’universo fosse unico. Ma dal punto di vista della filosofia tutto cambia. Perché il passaggio dall’universo agli infiniti universi trascina con sé tutti i paradossi del concetto di infinito. Se non c’è limite al numero di universi, esisteranno infinite copie della Terra, e quindi infiniti sosia di ognuno di noi. Non solo: si saranno verificate infinite edizioni della rivoluzione francese, delle guerre mondiali, e anche dei minimi eventi quotidiani. Ogni mio gesto da qualche parte sarà replicato infinite volte. E dunque perde valore: che senso ha - nell’economia generale, non nel privato del mio vissuto - fare il bene piuttosto che il male se infiniti miei sosia possono fare la stessa cosa o il suo contrario? Tutti questi gesti si elideranno tra loro. Salvare o uccidere il mio simile, non farà differenza nel bilancio globale. Anche la mia vittima vivrà infinite volte e per essa la morte sarà irrilevante. Ma se le cose stanno così, su che cosa fonderemo i valori, anzi, come sono possibili i valori? Quale spazio rimane per l’etica? John D. Barrow, fisico teorico all’Università di Cambridge, affronta il problema etico posto dai multiversi nel suo ultimo libro, L’infinito (Mondadori) e capovolge l’idea di Nietzsche, secondo la quale per essere indotti ad agire bene dovremmo pensare che ogni nostro gesto sarà ripetuto infinite volte. Per Barrow è vero l’esatto contrario: «Le nostre azioni non sembrano mai avere conseguenze irrevocabili in un universo infinito, se si assume un punto di vista globale». «Perché dovremmo agire per impedire il male se vi sono copie infinitamente numerose di noi stessi che scelgono le alternative moralmente riprovevoli? Sembrerebbe che vi siano mondi in cui Hitler ha prevalso e in cui il male sconfigge sempre il bene, proprio come vi sono mondi nei quali il bene vince il male». E poi «quando le azioni hanno catene senza fine di conseguenze forse non è possibile che tutte abbiano soltanto conseguenze buone per le altre persone». «Non c’è una soluzione semplice - conclude Barrow - per i problemi etici posti da un universo infinito. Forse c’è qualcosa di sbagliato nella nostra concezione geocentrica dell’etica. O forse l’unicità della mente è intrecciata più profondamente nel tessuto della realtà e l’universo deve essere finito». Ma se in futuro i cosmologi trovassero qualche osservazione che conferma le teorie degli infiniti universi, sarebbe difficile sfuggire al problema semplicemente dubitando che sia mal posto. Forse è opportuno che i filosofi incomincino a pensarci fin da adesso. Piero Bianucci