Adriano Sofri Panorama, 24/01/2002, 24 gennaio 2002
Anche il futuro remoto può essere un fatto di cronaca quotidiana, Panorama, 24 gennaio 2002 Sono così privato di futuro e di presente, non di passato, che le notizie su un avvenire distante mi colpiscono come se si trattasse di un mio fatto personale
Anche il futuro remoto può essere un fatto di cronaca quotidiana, Panorama, 24 gennaio 2002 Sono così privato di futuro e di presente, non di passato, che le notizie su un avvenire distante mi colpiscono come se si trattasse di un mio fatto personale. Leggo con curiosità quasi ansiosa sui giornali le notizie su eventi misurati da milioni e miliardi di anni. bella la confidenza con cui i giornali trattano eventi inconcepibilmente remoti come fatti di cronaca quotidiana. Una cronaca che, semplicemente, cambia di orologio e ne sceglie uno geologico o astronomico. Ma deve voler dire qualcosa lo spazio sempre maggiore che il futuro remoto prende nelle cronache. L’altro giorno ”la Repubblica” aveva in prima pagina un articolo di Tullio Regge sulla definizione astrofisica del colore dell’universo (turchese, per l’esattezza). Sentite come annunciava l’eventualità di un mutamento dell’universo pressoché imminente: «Se il nostro Sole esplodesse come una supernova, la Terra ne sarebbe distrutta. Secondo stime iniziali basate proprio su una statistica di supernove l’espansione dell’universo pare sia accelerata dalla repulsione cosmica e proceda in progressione geometrica rapidissima. Se così fosse, nel giro di poche decine di miliardi di anni l’aspetto del cielo profondo cambierà radicalmente». Ecco: ho provato un’invidia a leggere questo passo, che tratta le svolte di miliardi di anni come si trattano gli appuntamenti di domani mattina. Ho provato il desiderio di scrivere delle cose di ieri mattina o di domani pomeriggio come se fossero avvenute miliardi di anni fa, o dovessero avvenire fra miliardi di anni. Non è un esercizio facile. Bisogna diventare astrofisici (ma ormai è tardi) o almeno buddisti, forse. tuttavia mirabile, e rincuorante su noi animali umani, che il colore invisibile dell’universo, o il suo mutamento di qui a qualche decina di miliardi di anni, ci interessi, ci importi. (Non ci importa abbastanza, in realtà. Ho appena letto che le specie viventi che scompaiono ogni anno a causa dell’antropizzazione sono 30 mila). Un paio di giorni dopo, sull’’Unità”, ho trovato un articolo del portavoce del Wwf italiano, Gianfranco Bologna. Riferiva di uno studio autorevolmente pubblicato dalla rivista ”Science”, secondo cui la Cina ha ridotto le sue emissioni di anidride carbonica del 7,3 per cento nel breve giro di cinque anni. Notizia inaspettata e incoraggiante per la prospettiva di arginare l’effetto serra e di vincere la resistenza di alcuni paesi, gli Usa in primo luogo, agli accordi internazionali come il protocollo (esso stesso inadeguatissimo) di Kyoto. Nello stesso articolo si ricapitolava la dinamica demografica recente e prevedibilmente a venire. La popolazione umana era di 1,6 miliardi di persone all’inizio del XX secolo e ha superato i 6 miliardi alla fine: sarà di 7 miliardi nel 2012, di 8 miliardi nel 2026, e di 9 miliardi nel 2043. Impressionante, no? Adesso vi segnalerò un dettaglio, linguistico. Bologna non ha scritto che la popolazione umana «sarà» di 7 miliardi nel 2012 e di 9 nel 2043; ha scritto «saremo» 7 miliardi, «saremo» 9 miliardi. Naturalmente, noi, molti di noi almeno, non ci saremo, come dice la canzone. Io, nel 2043, avrei 101 anni, e voglio sperare che non mi capiti una così smisurata disgrazia. Quanto al 2012, se ci arrivassi, il cielo scampi, avrei solo sei o sette anni di galera da scontare ancora: troppa grazia. Ognuno di noi dunque legge queste cifre e le commisura, col suo convertitore personale, alla propria anagrafe e al proprio stato d’animo. Ma il bello è qui: che nonostante questo noi possiamo scrivere e pensare che «saremo» 9 miliardi nel 2043. Quella persona plurale non è un lapsus, è l’indizio di una capacità che conserviamo, benché spesso lupi l’uno all’altro, di sentirci solidarmente appartenenti a una famiglia che viene prima di me e verrà dopo di me, e non solo il ”nostro” genere di umani, ma la famiglia bella d’erbe e di animali cui apparteniamo, e la Terra che la ospita, e il Sole prima che si raffreddi, o si tramuti in una supernova. Nel lungo periodo siamo tutti morti, dicono gli economisti del giorno dopo. Non è così: può non essere così. Naturalmente, dipende anche da noi. Nel brevissimo periodo, domenica scorsa abbiamo dovuto andare a piedi nelle città, per ridurre di un po’ lo smog (avete dovuto: io sono con la palla al piede tutti i giorni, non inquino). Il rapporto fra futuro prossimo e remoto è ben simboleggiato dallo smog che impedisce di vedere le stelle. Gli astronomi oggi devono andare sulla cima delle montagne dell’Arizona o del Perù. Se le notizie sul futuro remoto ci commuovono tanto più quanto meno affidabile ci appare il futuro imminente, le aspettative più sorprendenti riguardano il passato remoto. Le scoperte che astronomia, geologia, paleontologia, archeologia fanno sul nostro passato non fanno che retrodatare la prima volta in tutto. di questi giorni anche la comunicazione del ritrovamento in una caverna sudafricana di due tavolette di ocra incise con linee geometriche che il loro scopritore presenta come la prima raffigurazione ”astratta” dell’homo sapiens, facendo risalire a 77 mila anni fa. Finora le datazioni più antiche di oggetti simili riguardavano l’Europa e non andavano oltre i 35 mila anni. Questa retrodatazione senza fine fa somigliare sempre più la nostra memoria di specie alla memoria personale, che la vecchiezza rende debole col passato prossimo, e forte col passato remoto. E a quello speciale interesse al futuro remoto che è anch’esso una dote dei vecchi, quando il futuro prossimo è un gruzzolo troppo magro per farci affidamento. Passato e futuro si fondono quando la presbiopia vince, magari perché si perde la voglia di guardare da vicino. Cito da Regge: «Una galassia che disti 10 miliardi di anni luce viene osservata dalla Terra come era 10 miliardi di anni or sono. Guardando oggetti sempre più distanti percorriamo a ritroso la storia dell’universo ma purtroppo per noi aumentando la distanza diminuisce anche la luminosità». Adriano Sofri