Massimo Gramellini La Stampa, 25/01/2002, 25 gennaio 2002
Wanna Marchi ha chiesto troppo alle sue ciabattone, La Stampa, venerdì 25 gennaio 2002 Fate schifo, dacordoooo?»
Wanna Marchi ha chiesto troppo alle sue ciabattone, La Stampa, venerdì 25 gennaio 2002 Fate schifo, dacordoooo?». D’accordissimo, signora Wanna. In realtà facciamo solo gli italiani e anche piuttosto bene. Come lei, d’altronde, fin da quando voleva convincerci a dimagrire con un frappè di alghe, blandizie e insulti assortiti. Come Totò che vendeva la fontana di Trevi ai turisti americani (ma oggi ci cascherebbe anche uno di Molfetta). E come il padre di tutte le Wannemarchi del mondo di cui già mi raccontava mio padre: era un tipo magro con un enorme cappello da spaventapasseri che prima della guerra bivaccava a Torino sotto la pensilina della stazione di Porta Nuova. Allungava a tutti i passanti il biglietto di qualche tombola: «Tenghino, signori. Niente paura, è un giro gratis». Poi, appena si era formato un crocicchio di persone in attesa dell’estrazione gratuita, lui si toglieva il cappellaccio e andava a riscuotere: «Questo invece è il giro a pagamento». Sono passate le generazioni, le monarchie e le prime Repubbliche, ma non siamo cambiati. «Quando vendete i nostri servizi, ricordatevi sempre che l’italiano è il popolo più credulone della Terra: si beve le citazioni in un modo straordinario», spiegava ai suoi uomini nel 1980 un giovane e astuto imprenditore chiamato Silvio Berlusconi. Chissà che fine avrà fatto. Quella di Wanna Marchi, di sicuro, è ancora tutta da scrivere. La venditrice più trucida e quindi ascoltata d’Italia ha sempre saputo arrampicarsi con tenacia sopra le nostre debolezze. L’ossessione per il corpo e i soldi. L’illusione di un benessere senza sacrifici, conquistabile a colpi di creme e di fortuna. Il bisogno dei disperati di potersi fidare di qualcuno. E quello dei diffidenti di essere rassicurati con la frusta e persino con la minaccia, l’unica arma seduttiva in un mondo di bontà troppo esibita per essere vera. Il pubblico le ha creduto una prima volta, quando invase le tv locali con le sue Spume di Cocco, le sue giacche di lamè orlate di raso e i suoi urli assatanati: «Dacordooooo?». Nel 1990 finì in carcere e poi agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta, gridando al complotto, secondo un copione che di lì a poco la saga di Mani Pulite avrebbe trasformato in un rito nazionale. Riemerse dopo anni, con i numeri ballerini del lotto e la farsa anti-malocchio del mago Do Nascimento. Ma il pubblico le ha creduto ancora, come capita solamente ai fenomeni paranormali, quelli che meritano di essere raccontati dall’inizio. Wanna Marchi è nata a Castelguelfo d’Imola, là dove l’Emilia sta per diventare Romagna ma non ci riesce ancora. Figlia di contadini poverissimi, la futura maga delle diete sperimentò sulla sua pelle quella più dura: la fame. A quindici anni emigra a Milano per farvi la colf nella casa di un parrucchiere. La sua fortuna è che quel parrucchiere si chiama Vergottini, il coiffeur delle dive. A furia di spolverargli gli armadi, la giovane Wanna si fa una cultura in unguenti e lozioni. Diventa commessa in un negozio di estetista, fino a impiantarne uno suo in Emilia, dentro un garage affittato per 18 mila lire al mese. Si sposa e sforna due figli, una attualmente in galera con lei. La sua storia poteva finire lì: una guerra personale a lieto fine contro la povertà e l’appetito, appena sporcata dall’ostilità di una suocera possessiva che persino il giorno del matrimonio le sussurrò all’orecchio: «Wanna, quanto sei brutta!». Ma è sempre da una cattiva notizia che partono le avventure più grandi. Nel caso della giovane Wanna, la scoperta che il marito la tradisce da tempo con un’altra. «Trasformerò queste corna nella mia corona», giura davanti alle risate oblique dei compaesani, lanciando il primo di una lunga serie di strilli. E lungi dal nasconderla, ripeterà la cronaca di quella sua umiliazione in centinaia di televendite, per ottenere dalle clienti l’unica solidarietà di cui le ritenga capaci: quella della compassione. «Signore mie!», intimava al culmine dei suoi lucidissimi deliri dimagranti, «perchè un uomo deve ritornare sotto il suo tetto se lo aspetta una donna sformata, spettinata e ciabattona? Volete restare lì come una balenottera a piangere sulle corna che vi mette?». E alle sue fedeli ciabattone al di là del vetro era istintivamente chiaro che la Wanna stava esprimendo un convincimento sincero, in quanto maturato all’ombra di un dolore personale. «L’odio e la cattiveria mi hanno portato a fare e ad avere tutto questo», era la sua frase più ripetuta nelle interviste degli anni di gloria, mentre le dita ingioiellate mostravano i negozi col suo marchio di fabbrica e la villa con una cameriera addetta unicamente alla sua vestizione: il privilegio delle regine. E regina lo è stata, Wanna Marchi: di un genere, la televendita, cui nel tempo ha finito per uniformarsi tutta la televisione. Ma mentre gli altri piazzisti dell’etere circuivano (e circuiscono) il pubblico con lusinghe e immagini gradevoli, lei intuì che bisognava sferzarlo con la verità cruda, o almeno con qualcosa che fosse percepito come tale. Anzichè vendere il miraggio di un corpo perfetto mostrando modelle più attillate di un’acciuga, invase il video con le sue forme grassocce e un linguaggio da bancone del mercato. E riuscì a vendere «a sole cientocinquantamillalireee» un banale cuscino spacciandolo per ”il guanciale che addormenta”, ma in realtà contrapponendolo agli odiati sonniferi «che vi rendono imbecilli e vi fanno assomigliare a dei drogati». La prerogativa di ogni grande imbonitore è di finire per credere alle balle che racconta. Wanna Marchi ne ha aggiunta un’altra, fondamentale nell’era della tv ruttata: l’esibizione orgogliosa della propria mediocrità: «Ho fatto solo la quinta elementare. E aloraaaaa? Qualche cervellone si lamenta che non parlo in maniera perfetta. Ma signori mieiiii, io voglio farmi capire da tutti!». Veramente non si è mai lamentato nessuno. Gli intellettuali, affascinati dalla sua barbarie, la adoravano. Nella prefazione all’autobiografia wannamarchica Signori miei (1986), Vittorio Sgarbi scriveva che la signora era una forza della natura, «per lei la cosmesi è una visione del mondo e i suoi prodotti una vittoria della scienza sul male». L’etnomusicologo Roberto Leydi, citato dal grande Beniamino Placido, riconobbe in lei «una ciarlatanesca grandezza, l’immagine e la voce di quegli imbonitori di piazza la cui arte antica sembrava sommersa nel mondo moderno». E Maurizio Costanzo, uno che nel suo circo umano ha visto passare di tutto, descriveva affascinato «la sua determinazione assoluta, come quando mi affermò di essere in grado, entrando in un ristorante, di dire se un cliente era geometra o bancario, donna in carriera o impiegata part time». Sì, pare impossibile ma ci fu un tempo così. Un tempo in cui la Wanna scriveva libri, incideva dischi rap coi Pommodores («D’acordoooo?»), e disprezzava i mostri sacri che la lodavano. Tutti «mezze calzette», escluso Enzo Biagi: l’unico, bontà sua, «di cui riesco a leggere fino i fondo quello che scrive». Poi, la favola della commessa che era diventata regina con i soldi di altre migliaia di commesse meno intraprendenti di lei, precipitò in un infernetto di minacce, attentati intimidatori, denunce, arresti, dissacrazioni del mito. Ma la memoria del pubblico si rivelò più inconsistente di una delle sue alghe dimagranti. E le garantì un clamoroso ritorno di fiamma con diavolo incorporato. Ubriacata dal nuovo e forse insperato successo, Wanna Marchi ha finito con l’esagerare, sottovalutando un po’ troppo le sue ”ciabattone”, che l’hanno ripagata con una denuncia: stavolta non alla magistratura, ma (altro segno dei tempi) a ”Striscia la notizia”. L’ultimo sberleffo del destino è che a smascherarne i magheggi e a farla rinchiudere dietro le sbarre sia stato proprio un programma di quell’Antonio Ricci che la consacrò icona televisiva di quest’epoca trucida, chiamandola a interpretare se stessa in ”Lupo Solitario”. La tv, che aveva trasformato la Wanna nella guida spirituale e materiale di migliaia di depresse, ha finito per riconsegnarla alla gogna. Di sè diceva spesso: «Sono una forza. Se volessi, potrei fondare un partito». Nel frattempo qualcuno le ha rubato l’idea. Massimo Gramellini