Filippo Ceccarelli La Stampa, 31/01/2002, 31 gennaio 2002
In televisione viene meglio Rutelli, La Stampa, giovedì 31 gennaio 2002 Se davvero la politica si è ridotta - come c’è qualche ragione di ritenere - a un puro gioco di apparenze, allora cominciano a contare gli occhi acquosi, le risatine supponenti, gli abiti larghi, i colori sbagliati, le parole difficili, le barbe malfatte e gli occhiali scuri da gangster
In televisione viene meglio Rutelli, La Stampa, giovedì 31 gennaio 2002 Se davvero la politica si è ridotta - come c’è qualche ragione di ritenere - a un puro gioco di apparenze, allora cominciano a contare gli occhi acquosi, le risatine supponenti, gli abiti larghi, i colori sbagliati, le parole difficili, le barbe malfatte e gli occhiali scuri da gangster. E viceversa. Se questa di oggi è la democrazia del primo piano - «la democrazia del telecomando», come la definì una volta Bruno Vespa - per ottenere il potere occorrono denti a posto, un bel sorriso, un colorito apprezzabile, la camicia giusta, la parlata franca e calorosa, uno stile dinamico e il più possibile distante dai ricordi di un passato desolatamente partitico. Tutto questo per far notare come all’interno della disfida tra Ds e Margherita ce n’è un’altra - certo inespressa, ma all’altezza dei tempi - sulla supremazia per così dire telegenica tra i vari leader dei due schieramenti. La vera posta in gioco di questa guerra parallela è infatti: chi viene meglio in tv, comanda. Si resta perplessi, perciò, di fronte ai tortuosi percorsi collettivi o alle eventuali convenzioni primaverili, o autunnali, figurarsi, prefigurate nel vertice di ieri. Forse sono affidati ad altro i processi di legittimazione di questa politica tardo-moderna. C’è ormai un’ampia bibliografia in proposito. Da uno dei più illustri politologi, Tzvetan Todorov: «Il capo è colui che piace, che sa sorridere, che risponde velocemente alle domande, in una parola colui che seduce e lo fa in un luogo, la tv, in cui la politica come spettacolo sostituisce la tv come responsabilità»; fino all’impression management teorizzato in uno studio significativamente intitolato Capi di governo, telefonini, bagni schiuma (autori Gianvittorio Caprara e Claudio Barbaranelli, Cortina, 2000). E allora, senza farla troppo lunga: l’altro giorno D’Alema è andato da Costanzo ed è stato un disastro: 11 per cento di ascolto, pubblico dimezzato. L’Italia era con Vespa (e Vanna Marchi). Brutalmente: D’Alema ha stufato. Neanche Fassino ce la fa, in tv. Non tira, non funziona, nemmeno come novità. Tempo un mese è già finito nel crudele repertorio satirico-simbolico di Blob. Lo mettono in onda con riprese dall’alto, mentre si agita sul palco con le lunghe braccia snodate, e non parla. Nel volto di Fassino si vede tutta la crisi del suo partito, del suo mondo. La televisione è una macchina impietosa e non di rado cannibalesca; una terribile lente d’ingrandimento che ingrossa e dilata, oltretutto, solo chi accetta le sue regole, così autorizzando perciò qualsiasi giudizio, specie se liquidatorio o cretinoide. E tuttavia - attenzione - televisivo. Ebbene: se si esclude un po’ la Melandri, che è graziosa, non c’è diessino che oggi spalanchi l’audience o tantomeno riesca a destare emozioni. La Turco è vista, stravista, ultimamente ha anche preso ad alzare la voce, e non le giova. Salvi: sembra appagato dalla sua stessa esistenza. Angius: per carità. Che poi uno si sente anche in colpa a scrivere così. Perché Angius, Salvi, la Turco, Fassino, D’Alema sono in realtà tutta gente rispettabile. In realtà. Ma il punto è che la realtà televisiva, che i politici hanno assecondato fino al punto di diventarne dipendenti, è diversa e a volte anche opposta alla realtà-realtà. Rendersene conto aiuta, anche se non consola. Rutelli invece funziona in tv. L’altroieri da Biagi - e meno male che ”Il fatto” non andava - ha fatto quasi il 28 per cento. Resta il grande e originario ”piacione” dallo splendido capello sale e pepe. Relativamente, ma funzionano anche i rutelliani: Letta, il secchione educato; e Franceschini, il bravo ragazzo; e Gentiloni, l’intellettuale modesto; e Realacci, il fantasista che ama la natura incontaminata; e Giachetti, l’ironico irruento; e Anzaldi, il portavoce disincantato. Ah, finalmente, questi sì: mica quegli altri, che non se ne poteva più... La video-politica consuma attenzione; ha sempre bisogno di facce nuove. E questo già basterebbe. La novità è che la tv non è più solo il principale canale di rapporto tra cittadini e classe politica, ma sta ormai producendo una nuova razza di leader provvisti di un misterioso carisma televisivo. «Suppongo che sia - ha provato a definirlo un letterato come Pietro Citati su ”Repubblica” - una mescolanza di stupidità, astuzia, vanità, immaginazione irreale, una specie di strana patina come quella che avvolge le dive del cinema e i fuochi di Sant’Elmo». L’altroieri Rutelli ha detto: «Dobbiamo imparare da Berlusconi». Dal suo punto di vista non ha torto. Perché non si capisce cosa vogliano i rutelliani; né come possano rassicurare, presi come sono dalle beghe della coalizione, i loro elettori spaventati dallo strapotere del Cavaliere. Però intanto piacciono: a grandi e a piccini, come si sarebbe detto un tempo; piacciono alle mamme, alle figlie, alle zie e alle nonne, come non a caso diceva nel 1994 Berlusconi. Fanno audience. Hanno un loro target, a guardar bene complesso, raggiunto attraverso contaminazioni, sincretismi, polivalenze. Sanno costruire frames (cornici simbolico-cognitive) e allestire location (scenari entro cui attirare telecamere). Ma quel che conta, oggi, è che sembrano freschi, odorano di bucato, appaiono più autentici, usano parole semplici. Magari non sarà sempre così. Però intanto è così. «Non importa cosa si dice in tv - diceva Walter Cronkite -, importa l’aspetto che si ha quando si dice». Filippo Ceccarelli