Paolo Isotta Corriere della sera, 30/01/2002, 30 gennaio 2002
Parla la signorina Tebaldi (e non nomina mai la Callas), Corriere della sera, mercoledì 30 gennaio 2002 Dopodomani, sempre bella ancorché sofferente, compirà ottant’anni
Parla la signorina Tebaldi (e non nomina mai la Callas), Corriere della sera, mercoledì 30 gennaio 2002 Dopodomani, sempre bella ancorché sofferente, compirà ottant’anni. All’inizio degli anni Cinquanta, una congiura organizzata da donnicciuole e omunculi la indusse a lasciare il suo teatro, la Scala. Venne adottata dal San Carlo di Napoli, allora il primo teatro italiano. Per La Traviata cantata da Renata Tebaldi si formava una coda che dalla biglietteria, di fronte alla Galleria Umberto, attraversava tutta piazza San Ferdinando e giungeva a via Chiaja: i napoletani, divenuti disciplinatissimi, volevano solo comprare il biglietto. Preparavano striscioni tessuti e ricamati che, piegati a ferro di cavallo, aderivano alle file dei palchi, dal primo all’ultimo: «Renata, sei tutto il nostro cuore!». La facevano camminare sopra tappeti di petali di rose. Poi una delle più grandi cantanti di tutti i tempi trovò la sua «seconda casa», dopo il San Carlo, al Metropolitan di Nuova York. Quando passava per la Quinta Strada, sempre al braccio della mamma, la polizia doveva bloccare il traffico perché tutti volevano vedere, magari sfiorare, uno dei più bei visi del Novecento. Una volta che cantò per il Congresso, ella entrò nell’aula e John Kennedy si alzò, applaudendo, con tutti i deputati. Dopo ogni recita, il pubblico l’acclamava così a lungo da estenuare quella ch’era pur sempre una sana ragazza marchigiana abituata a una vita igienica e a coricarsi presto la sera. Perché la «signorina Renata», come per tutta la vita s’è fatta chiamare salvo che qualunque ammiratore può apostrofarla per nome e darle il «tu», la «signorina Renata» a trentacinque anni davvero ti veniva naturale di chiamarla «ragazza», non «donna». Donna poi è diventata. La ragazza e la donna sono state, nel Novecento, uno dei più forti benefattori dell’umanità. Dispensarono come effusione e dono la pura, unica bellezza della voce e lo scavo profondo dell’interpretazione. Il dono poteva anche far soffrire, come talvolta soffrire fa la Bellezza: ma sempre, alla fine, si trasfigurava in gioia. Ebbe l’intelligenza e l’orgoglio di lasciare le scene nel 1973, a mezzi intatti e popolarità, se possibile, crescente. Si ritirò in un elegante appartamentino al centro di Milano. In nessun giorno della sua vita è stata in guerra col mondo; in quasi tutti in pace con se stessa. Un concerto alla Scala ch’ella regalò agli alluvionati del 1976 costituì da parte del grande Paolo Grassi il simbolico atto riparatorio del teatro verso di lei. Che tenerezza, questa casa stipata di ricordi, signorina Renata! «Ah, quanto a questo ho dovuto fare tanta pulizia... Li ho selezionati a seconda del valore sentimentale. E quante me ne hanno dette! ”La Renata è una cretina, la Renata non ha gusto!” Che cosa credono, che la Cadillac lunga due centimetri fatta di cristallo e oro, che la chiave di violino di strass, le bamboline, non sappia capire che non vengono da Tiffany? Certo, non ho tutta quest’istruzione, sono nata povera, però ho frequentato persone che mi hanno insegnato tanto. Ma che ne possono sapere, chi mi ha dato l’automobilina? Per esempio, un operaio che s’era fatto quarantott’ore di coda sotto la neve per un posto di galleria al Metropolitan e poi atteso nella notte che io fossi uscita...». Già, perché si dice che Lei non abbia rifiutato un autografo o un bacio a nessuno... «L’automobilina viene dal cuore, è inestimabile. Ma se parliamo dei doni supremi, il Signore me ne ha fatti due: la mia voce e la Tina». La Tina, una piccola roccia di settant’anni, siede in punta in punta a una poltroncina, accucciato ai suoi piedi il barboncino New (quarto). Tra lei e la poltrona della Signorina, una piccola etagère sulla quale campeggia la fotografia di padre Pio. La Tina è una vera personalità che fa di tutto per negarsi per tale, per rimaner nell’ombra. La protegge, le fa da sorella minore e sorella maggiore, la guarda con intatta adorazione. Vive «con la mia Signorina» dal 1957, non si sono lasciate un giorno da allora. La tragedia che spezzò in due la vita dell’artista fu la morte della Mamma, con la quale pure ella non s’era lasciata un giorno. La Provvidenza volle che la Tina fosse per la prima volta con loro a Nuova York quando la Mamma si spense mormorando un motivo della Manon Lescaut, l’ultima interpretazione della sua Renatina. Se Renatina si fosse trovata sola, forse sarebbe morta con Lei. Ma se la Tina non le fosse rimasta accanto, avrebbe smesso di cantare. Esistono questi processi simbiotici: ella è diventata la Signorina, potrei parlare solo con lei e sarebbe quasi lo stesso. Va e viene: s’inserisce soprattutto per puntualizzare, precisare. Ogni tanto, anche da una stanza lontana, giunge un «Era il ’61, non il 60!», oppure un «Era il maestro Mitropoulos, non il maestro Karajan!». «La mia correttrice perpetua!», finge finta indulgenza la Signorina. E il sorriso d’angelo la illumina ancora. Come avvenne che Renata e «angelo» divenissero un sol concetto? «Fu subito dopo la Guerra, quando Toscanini tornò in Italia. Mi scelse per il concerto inaugurale della Scala ricostruita. Avevo già incominciato un po’ di carriera. Ma per le poche note solistiche della Preghiera dal Mosè il Maestro, mi vergogno a ripeterlo, disse: ”Voglio questa voce d’angelo!”». Vorrà permettermi di toccare un punto delicato e doloroso della «voce d’angelo». Che ancora una volta si rivela una vittoria: ma una vittoria di sacrificio, per gli altri più che per Lei stessa... «Lo sapevo che ci saremmo arrivati, ma non mi costa nulla raccontarlo. Semmai, le conseguenze le pago adesso... Lei mi definisce ”ragazza”, e ancora fino a trentacinque anni, io potevo esser considerata, come dire, l’emblema della ragazza italiana sana, forte, pulita, bella: ma questa ragazza aveva una gamba offesa. A tre anni fui attinta dalla paralisi infantile alla gamba destra. Come mi curò la Mamma, quali sacrifici non fece! Però restai lievemente claudicante. Sa quale fu il dolore più grande? A scuola le altre ragazze potevano fare ginnastica (eravamo in epoca fascista, allora era una cosa importante), io sola dovevo rimanermene appartata. Però in scena sono sempre stata ben ritta. Mi dovevo reggere sulla sinistra. Il ginocchio sinistro ha pagato tutto: per cominciare, gli toccavano le cadute da copione». E poi c’era l’’effetto Vinay”, se ricordo bene... «Già. Ramon Vinay è stato il più grande Otello di tutti i tempi...». Come Lei, Signorina, è stata la più grande Desdemona... «... e s’immedesimava talmente nel ruolo che a volte, nel II atto, mi aggrediva brutalmente e mi buttava a terra facendomi davvero male... E diventavo cattiva anch’io: l’ho graffiato di brutto!». Sì, però io so benissimo che la Sua vittoria sulla malattia è altra e ben più importante. «Certo, fa parte del primo dono ricevuto dal Signore. Tutti sanno che la base del canto è la tecnica della respirazione. La ginnastica serve, tra l’altro, ad allungare il fiato. Ma io per natura...». ... natura che la Sua autoanalisi ha trasformato in tecnica ineguagliabile... «Per forza, altrimenti a trentacinque anni, altro che ragazza, mi dovevo solo ritirare... Ma Lei m’interrompe sempre sottolineando come se fossero miracolose cose ovvie...». Mi perdoni, è Lei che nella Sua santa ingenuità finge di dimenticare che i doni del Signore debbono venir coltivati e che uno dei punti capitali della Sua arte è di averli coltivati a fondo, facendo apparire alla portata di chicchessia cose difficilissime! «Crede di conoscere Renata Tebaldi più di me?». Sicuro. Conosco la modestia della signorina Renata e l’imbarazzo che ancora prova di fronte alle lodi. «E va bene. Io per natura ho avuto sempre una respirazione perfetta e fiati lunghissimi. Allora la vera rivincita l’ho provata la prima volta che cantai alla Scala sotto la direzione del maestro De Sabata. Quale magnetismo emanava da Lui! E quegli occhi! Ti trafiggevano e insieme ti mandavano messaggi d’amore. Avevamo fatto solo le prove di sala. Intanto il Maestro faceva le letture orchestrali. E venni a sapere che quando dovevamo passare alle prove d’insieme, De Sabata si rivolse a tutti gli strumentisti a fiato. ”Signori, ascoltino attentamente come respira la Tebaldi e conformino il più possibile la Loro respirazione alla sua. Così saremo tutti perfetti”». Lo vede? Altro che «voce, voce, voce», come stucchevolmente si ripete di Lei. La Renata è un miracolo dalla nascita per la qualità della voce; ma quanti ragazzi nascono ogni anno con una bella voce? «Un’infinità...». E allora? «Cantare bene da giovani per chi vi riesce spontaneamente è fatto di natura. Ma poi la natura si mette in pensione. Addirittura tremo: il numero e la durata delle carriere non fanno che diminuire, oggi soprani, tenori e mezzosoprani, sempre gli stessi ovunque, dopo aver cantato senza interporre tempo o gradualità di tutto, come se i titoli li pescassero al Luna Park, si ritirano a quarant’anni... Vivono in jet per una quindicina d’anni, oggi una prova a Francoforte, domani una recita a Chicago, e tutto è finito». Torno a ripetere: e allora? «Allora bisogna studiare al punto da conseguire razionalmente, per mezzo di tecnica, quello che a venticinque ti viene automaticamente. Io avevo già un’ottima tecnica, per via della mia Maestra, Carmen Melis...». Una grande artista ma anche una persona meravigliosa... «Una seconda madre, per me. Convinse la Mamma, contrarissima, che il mio destino fosse il canto, la portò dal maestro Zandonai che disse alla Mamma: ”Signora, di voci così ne nascono una, due per secolo! Lei ha responsabilità enormi!” Poi, mi ha fatto sempre lezione g-r-a-t-i-s, mi accompagnava a sue spese nelle tournées...». Proprio come gl’insegnanti di oggi, così disinteressati... «Ah, tanti francescani!». Torniamo al punto. «Ecco, io avevo un’ottima tecnica. Grazie anche alla signora Melis, cominciai ad analizzarmi perché gli automatismi di natura diventassero automatismi d’arte. A un certo punto conquistai un’ulteriore distensione del diaframma e trovai il perfetto punto d’appoggio per la voce. Così l’argento si scurì, divenne oro. Così il ”soprano lirico” e basta, come mi volevano, interpretò la Gioconda! Aggiungo una cosa ovvia sulla respirazione. Solo chi sa respirare sa, soprattutto può, veramente fraseggiare, ossia rispettare la punteggiatura della frase musicale, che da Palestrina a Puccini, e anche nella musica strumentale, è sempre modellata sulla durata del fiato; poi, può cantare piano, che è faticoso, senza ricorrere agli artifici grossolani del falsetto; può permettersi quel piano, crescendo e diminuendo di nuovo al piano su di una sola nota, la cosiddetta ”messa di voce”, per la quale mi si diceva incomparabile. Pensi che quella meraviglia di Marilyn Horne dichiara di essersi ispirata a me, oltre che a Ebe Stignani, anche per questo. E così quell’altra meraviglia di Montserrat Caballé. Poi, la respirazione e il fraseggio influiscono sul timbro. La bellezza del timbro è di natura, ma si conquista e si perfeziona». Già. Tutti i cretini ripetono da decenni che Lei canta in modo ”poco espressivo” perché Le interessa solo il ”bel suono”... «Poche cose mi offendono altrettanto. Il ”bel suono” è il presupposto del canto: che non è arte realistica. Troppo comodo! Altrimenti, qualunque cane potrebbe interpretare gli infiniti ”cattivi” del melodramma! In musica, salvo rari casi di ”effetti speciali”, il brutto deve intravvedersi attraverso il velo del bello. ”La Renata è un’oca!” Sa in che cosa sono stata veramente oca, sa qual è il mio vero rimpianto? Per soggezione, magari perché in un’intera opera una sola nota non mi soddisfaceva, ho avuto un repertorio in fondo limitato rispetto alle mie possibilità. Non ho cantato la Norma, e il maestro Serafin insisteva in tutti i modi!». Le faccio un’ultima domanda. Quali opere le hanno provocato difficoltà per il coinvolgimento emotivo troppo forte che Le procuravano? «Innanzitutto la Suor Angelica. Non sarei mai riuscita a cantarla da capo a fondo senza commuovermi. Arrivati a Senza mamma mi si sarebbe spezzata la voce. Poi La Traviata e la Butterfly. Avvertivo nel fondo di questi capolavori qualcosa di rivelatore del mio intimo che non voglio conoscere. Per interpretarle, ho dovuto usare a mia difesa quell’arma chiamata stile». Paolo Isotta