Filippo Ceccarelli La Stampa, 05/02/2002, 5 febbraio 2002
I Savoia, ormai, sono un pericolo solo per i divi della tv, La Stampa, martedì 5 febbraio 2002 Si sentiva l’esigenza di un più libero, stabile e compiuto ”Savoia Real Show”
I Savoia, ormai, sono un pericolo solo per i divi della tv, La Stampa, martedì 5 febbraio 2002 Si sentiva l’esigenza di un più libero, stabile e compiuto ”Savoia Real Show”. Sul serio: il loro ritorno è una necessità commerciale e spettacolare. Per il sistema televisivo italiano - per come è ridotto - e dal punto di vista dell’audience, l’impressione è che bastino infatti due o tre personaggi di contorno della Ex Casa Reale per annichilire la pur stravagante accolita di nobili che ha avuto un travolgente successo su ”Chiambretti c’è”. I Savoia, proclamò un paio d’anni fa in Parlamento l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, «non sono più un pericolo per la Repubblica». Ma certo appaiono pericolosissimi per chiunque, in tv. Prima di tutto perché sono tanti. «Non una famiglia - disse Maria Gabriella - ma un Casato». Ma soprattutto perché anche singolarmente, oltre che in gruppo, offrono tutta una fantastica varietà e contaminazione di generi: c’è il giudiziario (penale), il dinastico (controverso), il familiar-rissoso, il surreale, l’horror (anche, per via di parenti acquisiti trovati morti in circostanze terribili), poi il mondano e il commerciale, quest’ultimo con una spiccata egemonia sugli altri codici ripetitivi. Ognuno di loro è un catalogo vivente di dispositivi spettacolari e serializzabili. Il giovane Emanuele Filiberto, che non a caso ha esordito a ”Quelli che il calcio” dando prova di come si possa precocissimamente trapassare nell’aldilà mediatico-immateriale, ha già ricevuto un Tapiro d’oro. Però siccome quel giorno non era a Ginevra, allora Staffelli l’ha rifilato al padre, beccato mentre stava dal meccanico. Vittorio Emanuele ha accolto la statuetta con una battuta - «Noi Savoia abbiamo il muso lungo con il sorriso» - che a sua volta conferma come il Casato stesso, nella sua estensione di non-sense e nei suoi sdoppiamenti di concretezza, sia un giacimento di format. Una ”sceneggiatura invisibile” - come quella di cui ha scritto un intelligente teorico della tv come Paolo Taggi -, governa la rappresentazione dei Reali senza Regno. Adesso, l’Italia intera sarà finalmente la loro location. Emanuele Filiberto, durante una conferenza stampa, si è fatto chiamare sul telefonino, e così si è capito che la suoneria era impostata con Fratelli d’Italia. Ha già avuto un sacco di donne - la ”dolce Clotilde”, e a ritroso Alexandra di Andia, la nipote di Ursula Andress, l’attrice Dellera - ma voleva assistere alla beatificazione di Padre Pio e forse comprerà il Napoli Calcio. «Però ci vogliono molti soldi» ha chiosato il papà. ’Victor” sarà quel che sarà. Imprevedibile e litigioso, terrore dei paparazzi; gli amici lo chiamavano scherzosamente ”lo sfasciacarrozze”; adora le armi; quando dorme può tornargli in sogno quel povero ragazzo morto ammazzato all’isola di Cavallo; lo si è anche dovuto vedere in tribunale con le manette ai polsi; non parla tanto bene l’italiano e una volta ha confuso il Rinascimento con il Risorgimento. Ma con il quattrino - e qui può essere la vendita degli elicotteri o la modernizzazione dell’agricoltura della Costa d’Avorio - sembra che sia formidabile. Anch’essa è una risorsa narrativa. A volte, come in ”Dinasty”, questa sua vocazione l’ha portato a litigare in famiglia. Non si è mai capito bene quale dei figli del povero e dignitosissimo Umberto abbia venduto cimeli familiari a pizzichi e bocconi. Fatto sta che ad ogni asta di Sotheby’s, e ogni miniatura, ogni porcellana, ogni tappeto e ogni servizio d’argento da toilette messo in vendita si levavano cupi risentimenti familiari, accuse reciproche, gli eredi si rinfacciavano pubblicamente «scompensi mentali» o «il ben noto stato psichico»; e quei poveracci dell’Unione Monarchica si offrivano loro di ricomprare le preziosissime reliquie sabaude, preziosissime nel senso che gli astuti mercanti londinesi le battevano a un sacco di soldi proprio perché appartenute ai Savoia. La torva rissa sul testamento; l’impudica scomparsa di un certo medagliere; il tormentone su un archivio che, pur promesso dal re defunto alla Stato italiano, non giungeva mai, o giungeva mutilato: ”Savoia in esilio Spa”. Ogni tanto, per pura precauzione, l’anziano e fedele ministro della Real Casa metteva le mani avanti: «Niente paura: i gioielli stanno nel caveau della Banca d’Italia». Una volta Maria Josè, che era una donna rispettabile, arrivò a dimettersi da una Fondazione anche a lei intitolata. I rotocalchi sono andati avanti anni e anni con i memoriali dei Savoia. P2 e sfilate di moda, beneficenza e cortigiani impostori. Oltre alla Svizzera c’erano prolungamenti in Messico e in America. Storie anche tristi, o buffe, o assurde. Una notte il giovane Sergio di Yugoslavia cascò per le scale e voleva un risarcimento di 128 mila dollari per una ferita che s’era fatto a casa di un’ospite. Amedeo duca d’Aosta, rivale di ”Victor”, faceva il vino con lo stemma di casa, ma un socio gli fece passare un sacco di guai. «In fondo - disse con un certo humour al Costanzo Show - siamo sempre stati, sia pure indirettamente, persone di spettacolo». Aveva ragione. I re e i nobili hanno un ruolo quando l’arte politica è o torna a essere - come oggi - figurativa. Tutto dunque è pronto per la proliferazione mediatica dei Savoia. «Dalla Bonaccorti - disse Titti prima di perdere la causa con la sorella di Maurizio Arena - ci hanno accolti, è il caso di dirlo, come principi». E la Carrà chiese un giorno a ”Victor”: «Da giovane lei era un principe azzurro, vero?». Vero o no conta poco. Il pubblico ha bisogno dei Savoia. C’è una continuità ormai storica nel compito assegnatogli non s’è mai capito bene da chi: dimostrare agli italiani che in fondo sono molto meglio di coloro che - per grazia di Dio e volontà della nazione - avrebbero dovuto rappresentare degli esempi ai loro occhi. Compito, se ci si pensa, fin troppo impegnativo nel suo ribaltamento di senso. E anche un po’ triste; e nemmeno democratico. Il prolungarsi, insomma, di una condanna. Filippo Ceccarelli