Luca Vinciguerra Il Sole-24 ore, 06/02/2002, 6 febbraio 2002
La giusta cautela di Pechino verso il mercato, Il Sole-24 ore, mercoledì 6 febbraio 2002 Honk Kong
La giusta cautela di Pechino verso il mercato, Il Sole-24 ore, mercoledì 6 febbraio 2002 Honk Kong. Il mondo ha appena visto nascere una nuova valuta: l’euro. Ma presto potrebbe assistere all’avvento di un’altra: il renminbi. «Entro cinque anni la moneta cinese sarà pienamente convertibile. Ormai è un fatto inevitabile», osserva Chen Xing Dong, economista di Bnp Paribas Peregrine. La sua non è un’opinione isolata. La maggior parte degli analisti ritiene che il portentoso sviluppo registrato nell’ultimo decennio dall’economia cinese finirà inevitabilmente per catapultare il renminbi nel Gotha delle grandi valute di scambio internazionale: dollaro, yen ed euro. Il problema è capire quando si verificherà questo evento destinato a segnare una svolta epocale nell’evoluzione dei mercati finanziari internazionali. Da un punto di vista tecnico, una delle due condizioni necessarie affinchè lo yuan (è il sinonimo di renminbi) diventi una moneta pienamente convertibile è già assolta: la Cina può infatti contare su un forte surplus di bilancia dei pagamenti e ha accumulato uno stock di riserve valutarie - oltre 210 miliardi di dollari - secondo al mondo solo a quello giapponese. Manca, però, l’altra: la volontà politica del Partito Comunista di abbandonare il cambio del renminbi al suo destino, e di rinunciare così al controllo dei movimenti di capitale. La valuta cinese, per la verità è già parzialmente convertibile dal 1996, quando le autorità monetarie rimossero le restrizioni sui movimenti valutari all’interno della bilancia delle partite correnti. Da allora, in sostanza il renminbi può essere utilizzato come mezzo di regolamento negli scambi di beni e servizi con l’estero. Ma non è convertibile nella bilancia dei movimenti di capitali. O meglio, lo è solo in parte: secondo le leggi vigenti, a certe condizioni, un investitore estero è autorizzato a rimpatriare profitti, capital gain, dividenti ed interessi percepiti in Cina; ma non può fare altrettanto con gli investimenti di portafoglio, vale a dire nel momento in cui si trovasse a liquidare azioni o obbligazioni denominate in valuta locale. Il fatto che uno straniero non sia libero di riportare a casa i propri soldi come e quando vuole rappresenta ovviamente un freno ai flussi di capitale verso la Cina. Pechino, che per finanziare la crescita economica del paese ha bisogno come il riso degli investimenti d’oltremare, se ne rese conto nella prima metà degli anni ’90. E perciò corse subito ai ripari, annunciando al mondo l’intenzione di giungere gradualmente alla convertibilità del renminbi. La prima tappa, quella appunto che ha già condotto alla liberazione dei movimenti valutari legati agli scambi di beni e servizi, ha rispettato il ruolino di marcia definito a suo tempo proprio dall’attuale premier Zhu Rongji. La seconda, ben più attesa, che avrebbe dovuto aprire una volta per tutte le frontiere valutarie del Paese continua invece a farsi attendere. «Le turbolenze valutarie innescate dalla crisi asiatica del 1997-98 hanno spinto la Cina a ritardare un progetto che, nei piani dell’establishment, avrebbe dovuto realizzarsi già entro il 2000», spiega Yiping Huang, esperto di economia cinese di Salomon Smith Barney. La recente adesione della Cina alla Wto accelererà la corsa del renminbi verso la piena convertibilità? Fred Hu, chief economist di Goldman Sachs Hong Kong, non ha dubbi: «Oggi il Paese deve assolutamente rendere più flessibile il suo tasso di cambio per poter assorbire i traumi esterni causati dalla Wto. L’agganciamento de facto con il dollaro (il rapporto di cambio fisso si aggira intorno a 8,3 ndr) potrebbe infatti complicare notevolmente il processo di aggiustamento dei livelli di produzione, dei salari e dell’occupazione alla concorrenza internazionale». Inoltre, sottolinea ancora Hu, sarà la stessa apertura dell’economia cinese ad allentare progressivamente i controlli draconiani sui movimenti di capitale, rendendoli sempre meno efficaci. Ma sull’argomento Pechino si schermisce: «Entrando nella Wto, abbiamo fissato una tabella di marcia per la riduzione delle tariffe doganali e per consentire l’accesso graduale delle società straniere al nostro mercato dei servizi. Ma, sia ben chiaro, non abbiamo preso alcun impegno a liberalizzare i movimenti di capitale», è la posizione ufficiale espressa più volte dal Governo. D’altronde, come avverte l’economista Manu Bhaskaran, «liberalizzare ora i movimenti di capitale con un sistema bancario in simili condizioni sarebbe un gesto sconsiderato. Prima, è meglio che il Governo cinese pensi a risanare gli istituti di credito, a ristrutturare le aziende di Stato e a varare una riforma del sistema finanziario». Ecco perché, a meno di accelerazioni improvvise, la convertibilità del renminbi potrebbe richiedere tempi assai più lunghi dei 5 anni pronosticati dagli ottimisti. «Non sarà un processo né facile, né rapido. La crisi asiatica del ’97 ha mostrato ai cinesi cosa significhi aprire un mercato valutario avendo alle spalle un sistema finanziario scassato e inefficiente. Non credo che la classe politica abbia voglia di correre un simile rischio che potrebbe trasformare la Cina in una seconda Indonesia: da terra promessa degli investimenti esteri a regno dell’instabilità», ammonisce senza mezzi termini Clyde Prestowitz, presidente dell’Economic Strategy Institute di Washington. Insomma, Pechino ha mille ragioni per andare avanti con molta prudenza sulla via della liberalizzazione. «La maggioranza dei Paesi in via di sviluppo membri della Wto esercita uno stretto controllo sui movimenti di capitale. Perché noi dovremmo fare diversamente?», sostiene un portavoce governativo. , ovviamente, una forzatura. La Cina di oggi, nonostante le vaste sacche di sottosviluppo e di povertà presenti nel Paese, non può essere assimilata a una nazione in via di sviluppo in senso stretto. Lo dicono i numeri. Il prodotto interno lordo continua a lievitare a un ritmo impressionante (ha appena superato quello italiano): secondo le stime, entro il 2020 sarà il secondo al mondo dopo quello americano. Il commercio estero è in costante espansione, come testimonia il surplus commerciale di circa 20 miliardi di dollari registrato nel 2000. Gli investimenti esteri crescono a ritmo frenetico: «Secondo le nostre stime, saliranno dagli attuali 46,8 miliardi di dollari a 65 miliardi entro la fine del 2003, spingendo all’insù il surplus di bilancia dei pagamenti negli anni a venire», afferma Paul Sheard, capo-economista di Lehman Brothers Asia. Tanto tempo fa, qualcosa del genere era già accaduto in Giappone. La sua rinascita economica dopo la Seconda guerra mondiale ha fatto perno proprio sull’inconvertibilità dello yen a un tasso di cambio fisso bassissimo: per un ventennio, la moneta nipponica è stata valutata a 360 contro il dollaro. Questo rapporto è diventato sempre più irrealistico quanto più le merci del Sol Levante penetravano sui mercati internazionali. Ciò ha consentito al Paese di esportare per anni a più non posso e di accumulare uno stock colossale di riserve valutarie. Così, quando nei primi anni 70 l’anacronistica parità fissa con il dollaro è finalmente saltata consentendo ai giapponesi di investire all’estero, si sono verificati simultaneamente tre fenomeni. Lo yen si è rapidamente apprezzato. Il Paese si è trasformato in un prestatore netto di capitali. E lo yen è diventato una grande valuta di scambio internazionale. «Con ogni probabilità, la Cina finirà per ricalcare il paradigma giapponese. Avanti di questo passo, il governo sarà costretto a liberalizzare il mercato dei cambi e i movimenti di capitali. Le banche e le aziende cinesi inizieranno a investire oltrefrontiera, il Paese presterà quattrini all’estero e il renminbi sarà sempre più utilizzato nelle transazioni commerciali internazionali», è la previsione di un uomo d’affari di Hong Kong. Quanto sia avveniristica, il tempo dirà. Ma se ciò dovesse verificarsi, non resta che augurarsi che Pechino sappia far tesoro dell’esperienza giapponese ed eviti gli errori madornali commessi a Tokyo nel recente passato. Inondare i mercati mondiali con le proprie esportazioni, avere le cassaforti traboccanti di valuta, e finanziare una fetta consistente del debito pubblico americano è senza dubbio un sintomo di buona salute dell’economia. Ma non basta per scongiurare in eterno le recessioni domestiche e le crisi di fiducia che, come suggerisce la situazione drammatica del Giappone di oggi, se non vengono affrontate per tempo, possono finire per mettere in ginocchio qualsiasi superpotenza. Luca Vinciguerra