Brunella Giovara La Stampa, 21/02/2002, 21 febbraio 2002
In carcere, Erika De Nardo: «Non sono matta, siete voi a non capirmi», La Stampa, giovedì 21 febbraio 2002 Dice «ho un male dentro», e quale sia questo male non lo dice
In carcere, Erika De Nardo: «Non sono matta, siete voi a non capirmi», La Stampa, giovedì 21 febbraio 2002 Dice «ho un male dentro», e quale sia questo male non lo dice. Se le domandi come va, Erika? risponde con una smorfia da ragazza cattiva, «e come vuoi che vada, qui dentro?». Qui dentro al carcere per minorenni Beccaria di Milano tutti sanno chi è la famosa Erika De Nardo, e tutti ne stanno alla larga. Troppo lunatica, eccentrica, strana. Un giorno ti ama, un giorno ti odia. Difficile riuscire a prenderla per il verso giusto. Chi lo deve fare per forza, lo fa con fatica. Erika ha 17 anni, due cadaveri sulle spalle e perciò una condanna a 16 anni di carcere. Ha anche pensieri confusi sul futuro, ricordi pasticciati di quello che ha fatto e di quello che non ha fatto. Dice «curatemi, ho bisogno di cure», ma anche «non dichiaratemi matta, non voglio finire in manicomio». Cerca attenzione e respinge tutti, chiede affetto e maltratta chi glielo offre. Dentro, «io vedo solo buio». Dentro, «ho un male». E anche una rabbia tremenda verso il mondo che non l’ha capita. «I giudici? Non hanno capito niente». Gli psichiatri? «Anche loro, niente». Il papà? Tuo padre ti vuole ancora bene... Sul punto, non risponde. E oggi fa un anno. 21 febbraio 2001, 21 febbraio 2002, con in mezzo un processo fatto da gente «che non ha capito niente di me». Oggi è un anniversario tragico, che il papà di Erika ricorderà facendo celebrare una messa. Stesso giorno, stessa ora del delitto di Novi Ligure. Oggi ci si ricorda di una sera orribile, eppure quella sera l’orrore aveva persino una sua logica: una rapina andata male, una banda di albanesi che dà l’assalto ad una villetta di Novi Ligure, e se ne fugge lasciandosi dietro una mamma e un bambino ammazzati come animali. Più una ragazza - sconvolta, ma incolume - che fugge nella notte chiedendo aiuto, ferma una macchina, racconta che «qualcuno voleva uccidere il padre». «Ella era riuscita a scappare fuggendo dalla tavernetta», scrivono i carabinieri nel primo verbale, «ella si dava della ”codarda” per essere così fuggita lasciando madre e fratello». Poverina, pensarono tutti. Ma già il giorno dopo c’era di che dubitare. La ragazza, accompagnata in casa a prendersi qualche vestito, si era indispettita per via del gruppo di giornalisti, fotografi e cameramen, e li aveva mandati a stendere con gesto plateale. Gesto ripreso e mai mandato in onda, registrato ma mai scritto. Una specie di autocensura, peraltro assai rara sui fatti di cronaca. Ma allora si pensò «è sotto choc, non sa cosa sta facendo, è traumatizzata, è sfuggita per miracolo alla strage». Oggi sappiamo che quella era Erika De Nardo. Una ragazza bugiarda. Cattiva. Sicura di sé, sfrontata, e anche audace, capace di inventare un sacco di balle, a cominciare da quella degli albanesi. Il giorno dopo la messinscena di Erika andava a gambe all’aria, in una stanzetta della caserma di Novi. Lei prendeva a ceffoni il fidanzato Omar, già tentennante, che le confessava «ho tanta paura». Giù una sberla, a questo Omar coniglio, e poi lei raccontava di come aveva ingannato i carabinieri, con un identikit fatto sul momento: «Stamattina l’ho fatto da Dio. Minchia, io accuso due persone che non c’entrano». Ecco Erika, quella vera, che confessa in diretta (i carabinieri li stanno intercettando). E questa confessione a due è un grande psicodramma, dove i due si raccontano come sono andate le cose, le coltellate, i tentativi di strozzamento, il fratello che non voleva lasciarsi ammazzare, la mamma che diceva «io ti perdono». I vestiti sporchi di sangue, il topicida che non si scioglieva e poi cadeva a terra, e così Gianluca veniva finito a coltellate nella vasca da bagno. Due ragazzi assassini, la logica degli albanesi che sfumava e lasciava spazio ad una verità che all’inizio nessuno voleva accettare: «impossibile che siano stati loro», ma già alcuni brandelli dell’intercettazione finivano sul giornale, e insomma avevano ragione i carabinieri, che fin da subito seguivano la pista della famiglia, perché i conti non tornavano, quella non poteva essere una rapina fatta da albanesi. Anzi, non sembrava nemmeno una rapina. Anzi, era una finta rapina. Di colpo, ci si dovette accorgere che due ragazzi possono uccidere, avendo studiato un piano per eliminare l’intera famiglia in nome di un progetto assurdo: una vita migliore, con molta più libertà di quanta veniva concessa loro. Una casa (quella di Novi), una nuova famiglia (magari adottando Gianluca). Sposarsi, fare dei figli... Il progetto non contemplava alcune variabili: la fatica di ammazzare (e solo per questo il papà di Erika venne risparmiato); la reazione di Gianluca (ucciso solo perché aveva visto uccidere la mamma). E il lavoro dei carabinieri e dei magistrati, sottovalutato: «Il colonnello? un poveraccio come gli altri». Il procuratore? «Un gran figlio di puttana», si dicono i due nelle intercettazioni. Erika e Omar pensavano di essere bravi, di fregare tutti, di farcela. Così non è stato, e questa è la loro salvezza. Oggi Omar (condannato a 14 anni) studia da meccanico e si dice pentito. Aspetta con ansia l’appello che i suoi legali stanno preparando, spera in una riduzione di pena, spera di tornare a casa da papà e mamma. Oggi Erika (condannata a 16 anni), freme per uscire, e subito. Non capisce «perché gli altri non capiscono» che lei ha bisogno assoluto di libertà. Subito, non tra 16 anni. L’appello? Se serve, che lo facciano. Un lavoro? «Sì, perché ho bisogno di soldi». Ha fatto l’imbianchina per un po’, lavoretti di quelli che si affidano ai detenuti. Poi si è stufata, basta, meglio sentire la musica nelle cuffiette. Non è cambiato niente, non è cambiata lei, non ha mai detto «mi dispiace». Brunella Giovara