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 2002  febbraio 03 Domenica calendario

La notorietà fa perdere la testa anche ai cavalli, Libero, domenica 3 febbraio 2002 Su ”la Repubblica” di sabato 26 gennaio, nella pagina degli spettacoli, Giovanni Maria Bellu, nell’articolo intitolato ”Little Big Horn a Mogadiscio”, si occupa della vasta eco che sta avendo negli Stati Uniti l’ultimo film diretto da Ridley Scott (Black Hawk down), dedicato alla dura sconfitta alla quale andò incontro l’esercito Usa durante la missione Onu in Somalia, tra il 9 dicembre 1992 (data dello sbarco dei marines) e il 3 ottobre 1993 (momento culminante della tragedia conclusasi con diciotto morti americani)

La notorietà fa perdere la testa anche ai cavalli, Libero, domenica 3 febbraio 2002 Su ”la Repubblica” di sabato 26 gennaio, nella pagina degli spettacoli, Giovanni Maria Bellu, nell’articolo intitolato ”Little Big Horn a Mogadiscio”, si occupa della vasta eco che sta avendo negli Stati Uniti l’ultimo film diretto da Ridley Scott (Black Hawk down), dedicato alla dura sconfitta alla quale andò incontro l’esercito Usa durante la missione Onu in Somalia, tra il 9 dicembre 1992 (data dello sbarco dei marines) e il 3 ottobre 1993 (momento culminante della tragedia conclusasi con diciotto morti americani). Paragonando la débâcle di cui si parla con la battaglia di Little Big Horn che vide parte del Settimo Cavalleggeri soccombere di fronte ai sioux guidati da Cavallo Pazzo, l’articolista, fra l’altro, afferma che la pellicola di Scott «non fa altro che riportare la missione al punto di partenza: Hollywood, appunto». Ed aggiunge: «A sorprendere è la rapidità: la stessa opinione pubblica che subito dopo la strage obbligò Clinton a chiudere a tragica partita somala oggi fa la fila per vederne la trasfigurazione epica. Non è una novità. Ma per Little Big Horn (25 giugno 1876) ci volle molto più tempo». Ora, per il vero, la appena citata battaglia ottocentesca ha avuto da subito una vastissima eco nell’immaginario americano (naturalmente, non fu possibile celebrarla cinematograficamente!) al punto tale che perfino il cavallo montato a Little Big Horn dal capitano Myles Keogh (l’animale di chiamava Comanche) diventò famosissimo. Unico sopravvissuto allo scontro (lo ricorda, fra gli altri, Louise Barnett, attenta biografa di George Armstrong Custer) secondo le leggende immediatamente fiorite, non solo Comanche arrivò ad essere la mascotte del reggimento, ma a lui furono dedicati almeno tre saggi e un gran numero di poesie, racconti e dipinti. Il 10 aprile 1878 - meno di due anni dopo la sconfitta di Custer - il colonnello Sturgis emanò un ordine nel quale si conferiva uno status ufficiale al cavallo, che, da quel momento, doveva «godere di un trattamento gentile e premuroso da parte del Settimo Cavalleria affinché la sua vita possa essere prolungata ai limiti estremi». Da allora, Comanche condusse un’esistenza assolutamente dissoluta che si protrasse fino alla morte (sopraggiunta quando aveva ventinove anni). Abituato ad un pastone di crusca allagato dal whisky, diventò un ubriacone e un seccatore. Si faceva vedere davanti al saloon del forte che lo ospitava per elemosinare una birra dai soldati e quando non dormiva ubriaco se ne andava in giro rovesciando i bidoni della spazzatura e calpestando aiole e giardini. Dopo la morte, venne imbalsamato e finì col diventare una delle massime attrazioni del Museo della Storia naturale dell’università del Kansas non senza che molti altri Stati ne rivendicassero le spoglie con i più incredibili pretesti (il Montana perché lì si trovava Fort Keogh, così chiamato in onore del suo cavaliere caduto in battaglia; il Nord Dakota perché Comanche era partito da un forte situato colà per la sua ultima missione; il Sud Dakota perché il destriero aveva anche soggiornato entro i suoi confini, e così via). Mauro della Porta Raffo