Ugo Tramballi Il Sole-24 Ore, 10/07/2002, 10 luglio 2002
Israele teme la guerra demografica, Il Sole-24 Ore, mercoledì 10 luglio 2002 Gerusalemme. «Se avessi il tempo di farlo - diceva un paio di settimane fa Ariel Sharon al 34° Congresso sionista - andrei per le comunità ebraiche del mondo a incontrare le masse con un messaggio sulle labbra: fate aliyah, fate aliyah», cioè emigrate in Israele
Israele teme la guerra demografica, Il Sole-24 Ore, mercoledì 10 luglio 2002 Gerusalemme. «Se avessi il tempo di farlo - diceva un paio di settimane fa Ariel Sharon al 34° Congresso sionista - andrei per le comunità ebraiche del mondo a incontrare le masse con un messaggio sulle labbra: fate aliyah, fate aliyah», cioè emigrate in Israele. I delegati convocati a Gerusalemme avevano applaudito calorosamente: anche più del solito, dato il momento di pericolo e la mobilitazione ora sostanzialmente acritica di tutte le comunità ebraiche a favore d’Israele. Ma nessun americano, nessun europeo avrebbe potuto garantire quell’emigrazione di massa tanto invocata da Sharon. il problema più antico, forse la questione di fondo fra i sei milioni di ebrei israeliani e i circa 12 di ebrei fuori da Israele. Era stata la preoccupazione di Chaim Weizmann, di Ben Gurion; e in tutti i precedenti Congressi sionisti, tutti gli altri 10 primi ministri della storia d’Israele avevano fatto la stessa calorosa invocazione di Sharon. Ma nell’ultimo decennio ha dovuto cadere l’Unione. Sovietica seguita dalla lunga instabilità russa, perché un milione di ebrei russi prima potessero emigrare e poi decidessero di farlo. E la crisi economica ha dovuto toccare il fondo prima che dall’Argentina iniziasse una nuova ondata, anche se non paragonabile nei numeri a quella russa. Ora però c’è un’urgenza più grave: non tanto per via del conflitto con i palestinesi e della brutalità del terrorismo. Il destino di Arafat è molto più insignificante di un altro secolare confronto con gli arabi, che sta diventando sempre più concreto e anno dopo anno sarà sempre più drammatico: la guerra demografica, così strettamente legata alla guerra per il controllo della terra. Dal fiume Giordano al Mediterraneo, cioè in Israele, Cisgiordania e Gaza, entro un ventennio scarso gli ebrei saranno meno degli arabi; dai 14 anni in giù, i secondi sono già più numerosi dei primi. Secondo uno studio dell’Università di Haifa che definisce il problema «una minaccia esistenziale», nel 2020 in questa regione vivranno 15 milioni e mezzo di persone (ora sono una decina di milioni): gli ebrei saranno solo il 40 per cento. Anche dentro i confini internazionalmente riconosciuti di Israele, la maggioranza ebraica attuale dell’88 per cento circa scenderà al 64, spinta dalla crescente natalità degli arabi cittadini d’Israele. Le cifre elaborate dal professor Aron Sofer di Haifa non sono molto diverse da quelle degli altri demografi come Yitzhak Ravid e Sergio Della Pergola dell’Università ebraica di Gerusalemme. Anno più, anno meno, per tutti è solo questione di tempo. Scientificamente, uno Stato con una minoranza superiore al 30 per cento è considerato binazionale. Mentre Israele per definizione, realtà delle cose e necessità, esiste perché è lo Stato degli ebrei. Israele come rifugio sicuro del popolo ebraico è nato dai pogrom, dall’antisemitismo, dall’Olocausto, cioè dal tragico fallimento europeo della convivenza inter-etnica. Quanta democrazia può essere richiesta al sionismo, il movimento nazionale ebraico, per accettare di concludere il suo cammino di salvezza etnica fra i pericoli di uno stato binazionale? «Il sionismo - spiega Ze’ev Sternhell dell’Università ebraica di Gerusalemme - deriva la sua legittimità dall’essere una risposta al pericolo esistenziale che ha minacciato il popolo ebraico nella prima metà del XX secolo. Non era un diritto storico, quanto piuttosto la necessità di salvare vite, che costituiva la base morale della conquista della terra. Dunque, il diritto di tutti i popoli di garantire la propria esistenza, controllando il proprio destino attraverso la creazione di una realtà politica indipendente, è ciò che giustificava la presa di controllo di quel territorio da cui è nato Israele». Per Sternhell, il quale è convinto che il sionismo abbia esaurito il suo compito garantendo i confini d’Israele prima del 1967, occupare Gaza e Cisgiordania non significa solo snaturare il movimento di liberazione nazionale in «movimento imperialista di costante espansione». Non è solo una questione morale, è soprattutto un problema di salvezza nazionale. Le cifre dei demografi sembrano dargli ragione. Qualcuno raccomanda le autorità- politiche e militari a badare che ogni ettaro sottratto ai palestinesi nei Territori non modifichi l’attuale proporzione demografica dentro Israele di 8 a 2 a favore degli ebrei. Altri consigliano di più: «Per il bene di questo equilibrio demografico - sostiene Arnon Sofer - è necessario smantellare 50 insediamenti ebraici nei Territori e separarci dai 219mila arabi di Gerusalemme Est». Tutto ciò contrasta con alcuni fondamenti della destra israeliana: l’unicità di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e il rifiuto di smantellare un solo insediamento. Solo un paio di mesi fa, in un’intervista a ”Yedioth Ahronoth”, Sharon affermava che per lui una colonia ebraica a Gaza, dove non esistono radici bibliche, è importante quanto Tel Aviv. Ma che fare quando il controllo della terra non fa che accelerare quelle pericolose tendenze demografiche, quando Grande Israele significa governare un numero crescente di arabi? Il ”muro”, i 352 chilometri di filo spinato e cemento che Sharon sta costruendo attorno alle città palestinesi per isolarle da Israele, è solo un palliativo. Per i partiti della destra estrema e per i giovani nazional-religiosi degli avamposti, i nuovi insediamenti fatti da qualche caravan, la soluzione è deportarne gli abitanti. Questo però sarebbe come negare quel legame fra democrazia e Israele nel quale si è sempre riconosciuta la corrente maggioritaria del sionismo. «L’essere l’unica democrazia in Medio Oriente - ammoniva al congresso sionista Arthur Hertzberg, un ex dirigente del movimento - cade a pezzi quando ci confrontiamo con la realtà sociale e politica. Il diritto degli ebrei di avere la loro identità nazionale può portare all’espulsione degli arabi. Non esiste una soluzione di compromesso fra il nazionalismo israeliano e palestinese: ma ci può essere qualche pragmatico deterrente». Per preservare l’essenza ebraica dello Stato, alcuni accademici e generali avevano proposto di trasferire all’Autonomia di Ararat il villaggio palestinese di Umm al-Fahm che è dentro Israele. «Volete davvero che l’intera Israele diventi una grande Masada?», aveva reagito Luft Mansur, il direttore di un giornale arabo-israeliano di Nazareth, ricordando la fortezza nella quale gli ebrei si suicidarono in massa per non cadere nelle mani dei romani. Il vero pericolo alla sopravvivenza dello Stato ebraico non sono Hamas né i Tanzim ma la demografia. La grande sfida di Israele non è vincere l’Intifada, militarmente già sconfitta, ma conquistare la pace e definire i suoi confini, preservando al tempo stesso la propria originalità. Il problema, in sostanza, non è se continuare oggi la guerra ma come salvaguardare domani il miracolo della democrazia israeliana. Ugo Tramballi