Mariangela Mianiti diario 28/06/2002, 28 giugno 2002
Pulire il bidet usato da un ricco fa guadagnare 5,74 euro lordi l’ora, diario 28 giugno 2002 Milano
Pulire il bidet usato da un ricco fa guadagnare 5,74 euro lordi l’ora, diario 28 giugno 2002 Milano. Ho ficcato il naso nel mondo del lavoro atipico. Per vedere che cosa succede a una quarantenne che vuole ricominciare a lavorare dopo anni di inattività, per capire com’è questo mondo visto da dentro. Mi sono rivolta alla Adecco, la seconda agenzia di lavoro interinale in Italia, tacendo la mia vera professione di giornalista, e dicendo tutta la verità sul resto. Mi presento come una quarantenne, ex insegnante, che dopo dodici anni di vita dedita alla famiglia vorrebbe rientrare nel mondo del lavoro. Nessuna obiezione sull’età, interessa poco o nulla il mio curriculum di studi, desta solo un po’ di perplessità la precedente occupazione troppo incline al lavoro di intelletto e poco a quello fisico. Ma il dubbio dura poco. Mi selezionano per il corso e poi mi assumono in uno degli alberghi a cinque stelle più grandi e costosi di Milano che appartiene a una importante catena americana. Questo è il resoconto di un’esperienza di lavoro interinale in diretta. I nomi delle persone sono cambiati i per rispetto della loro privacy. Aprile, lunedì 8. Rosa ha 48 anni, ma ne dichiara cinque di meno. Le è bastata un’occhiata attorno al tavolo per capire che è la più anziana del corso di addestramento di cameriera ai piani in grandi alberghi offertoci da Horecca, agenzia di formazione affiliata alla Adecco. Horecca sta per hotelerie ristorazione e catering, forma e fornisce personale ”volante” a qualunque struttura turistica ne abbia bisogno. Di bisogno ce n’è tanto per loro stessa ammissione. «Il turn over è fortissimo», dice Alessandra, l’istruttrice, «questo lavoro è molto più difficile di quanto si pensi. Ma se vi date da fare avrete molte soddisfazioni Però badate bene, noi non vi diamo un lavoro fisso, forniamo personale nei casi di emergenza, cioè picchi di lavoro, sostituzione malattia o ferie». Siamo tre italiane sopra i quarant’anni e sette straniere fra i 20 e i 36 di cui quattro filippine, una peruviana, una dominicana e una lituana. Prima di iniziare ognuna racconta qualcosa di sé. Mara, una delle due italiane, è qui perché ha perso il lavoro di edicolante e si è stufata di fare panini in bar da quattro soldi; l’altra, Rosa, deve arrotondare le entrare di famiglia legate a un negozio di stoffe che non va molto bene. Le straniere hanno storie che a Bossi e Fini non farebbe male ascoltare: tra le filippine Anna è laureata in ingegneria, le piaceva costruire strade e scuole a casa sua, ma lo stipendio equivaleva a 150 euro mensili e non si viveva. In Italia il suo titolo di studio non è riconosciuto, si è adattata ai lavori più umili, non le piace, ma che altro può fare? Elisabeth ha 36 anni, un figlio di sette che non vede da cinque perché deve scegliere fra mandare i soldi a casa o tornarci lei una volta l’anno, e poi non ha un lavoro fisso. Adesso, per esempio, sta lavorando in una fabbrica di pelletteria sempre come interinale, ma l’hanno messa in ferie per un mese perchè c’è poco lavoro, dopo non sa che cosa succederà. A Mercedes, peruviana, piaceva molto di più vivere nel suo Paese, «Ma con lo stipendio di là», dice «non si arriva alla fine del mese, qui anche con un milione e mezzo di vecchie lire ce la fai. Certo, non riesci a risparmiare nulla». Svetlana viene da Riga, ha 28 anni e da un anno vive qui perché ha sposato un italiano. A Riga lavorava in banca come impiegata. L’anno scorso ha lavorato per tre mesi, ma pagata in nero, in una fabbrica che produce cosmetici per la Pupa, ora vorrebbe un lavoro regolare. La più giovane è Carmen, dominicana, contenta soprattutto di essere in Italia accanto a sua madre alla quale si è ricongiunta dopo nove anni di lontananza. Martedì 9. Dopo il giorno di teoria si passa alla pratica. Orario di lavoro 8.00-16.30 compresa mezz’ora di pausa. Dobbiamo presentarci alle 8.00 in mensa con la divisa in ordine: abito di cotone a righe, grembiulino, scarpe scure, chiuse e comode, calze color carne, orecchini non più lunghi di due centimetri, niente gioielli, se usiamo smalto deve essere trasparente, profumi discreti, i capelli raccolti con ganci ammessi dalla direzione. Ci assegnano due armadietti da cinquanta centimetri di larghezza l’uno dove lasciamo i nostri abiti, ma siamo in dieci e si stropiccia tutto. Pazienza, siamo interinali. Nella mensa, che è nel sotterraneo e senza finestre come tutti i luoghi riservati alla servitù, la prima governante, che è la responsabile delle camere, assegna a ognuna telefono, passepartout e la lista delle camere da fare. Circa metà colleghe sono italiane e fanno questo lavoro da molti anni: lo si capisce dall’età, ma anche dalle facce stanche e incazzate, dalle schiene curve, dai piedi gonfi. Per i quattro giorni dell’addestramento, ovviamente non pagato, saremo insieme e seguite da Alessandra e da Rosemarie, una cameriera fissa di origine portoghese. Ci sono tecniche precise per imparare a pulire 13 stanze in otto ore, l’economia e la precisione dei gesti è indispensabile se non si vuole soccombere. Inoltre, essendo chiamata proprio per tappare i buchi, una cameriera interinale si trova ogni giorno su un piano diverso, alle prese con office, le stanze magazzino con attrezzatura e biancheria, organizzate in modo diverso, cosa che non velocizza il lavoro, ma lo rallenta. Ben presto capiamo che il tempo qui più che prezioso è vitale: si ha mezz’ora per camera, il tempo ideale per cambiare un letto sarebbero quattro minuti e la stanza deve essere ineccepibile perché qui un cliente paga per una singola circa 400 euro a notte. Arriva la pausa: mezz’ora per mangiare in mensa, ma molte schizzano via prima altrimenti non ce la fanno a finire. Si ricomincia con i bagni. Vuotare i cestini, spogliare il bagno, togliere la biancheria sporca, portarla via e dividerla, tornare di corsa, spruzzare la crema su lavandini, vasca, doccia e sanitari, fregare, sciacquare, anche la doccia entrandoci e rischiando di farsela, asciugare e non lasciare aloni né sulla rubinetteria né sugli specchi che qui quasi quasi li mettono anche nel bidet, vestire il bagno con biancheria pulita e saponette varie, passare lo straccio per terra stando inginocchiate così si è sicure di togliere tutto, passare l’aspirapolvere. Fatto, sembra tutto perfetto tranne la schiena. Ma dicono che anche lei imparerà. Rosmarie arriva per il controllo, passa la mano sotto il lavandino, sente una traccia di sapone e bisogna ricominciare. Pare che alcune governanti, o certi clienti un po’ carogne, si divertano a fare questo scherzetto per verificare il livello dell’albergo. Ma pagano circa 800 euro per una doppia e quindi hanno ragione. Mercoledì 10. Una delle ragazze filippine ha già dato forfait con la scusa che non parla bene l’italiano. Anna, l’ingegnere, fa fatica a prendere il ritmo, Mara è estasiata dalla bellezza dell’albergo, Elizabeth pensa solo a finire in fretta e fa conti sugli incastri dei suoi lavori, Svetlana e Carmen si preoccupano di lavorare il meglio possibile per essere assunte, anche temporaneamente, anche se Carmen ha scoperto di essere allergica al lino e a fine giornata ha le mani che pizzicano. Lavorare, a qualunque costo, è la loro preoccupazione principale. Anche per questo piacciono. Rosa, che sognava almeno una volta nella vita di entrare in un albergo come questo, ora può dire di esserci riuscita, ma commenta: «Certo, preparare questi letti bellissimi e non poterci mai dormire è un peccato. Ma che ci vuoi fare, io non li avrò mai tutti questi soldi». Tutte incamerano la propria povertà, la differenza sociale come un fatto ineluttabile. Giovedì 11. Abbiamo perso anche la seconda filippina che sapendo fare i massaggi e avendo fatto due conti ha capito che non le conviene spaccarsi la schiena qui. Per mostrarci quanto è allettante la vita d’albergo, ce lo fanno visitare da cima a fondo anche nelle parti più sontuose e rappresentative dove ci sentiamo dei paria con le nostre divise che sono un marchio di strato sociale inferiore. Infatti ci consigliano di muoverci con riserbo e rasentando i muri, con le mani lungo i fianchi, in silenzio, senza masticare alcunché, guardando in faccia e salutando ogni cliente che incontriamo. Ma non serve perché non ci vedono nemmeno. In compenso si scopre quanto costa concedersi la suite migliore: circa settemila euro al giorno. Mercedes ha un mancamento e mormora: «è quasi il mio stipendio di un anno». Eh sì, cara. Venerdì 12. Abbiamo imparato che bisogna lavorare bene e di corsa, che la schiena si spezza perché si è continuamente piegate, e per i chili di biancheria da trasportare, che non esistono luoghi di relax perché è impensabile che una cameriera si sieda a riposare, che il nostro lavoro non è solo pulire le camere ma anche fare da balia al clienti, che ogni stanza è una sorpresa e rivela personalità, ricchezza economica o povertà d’animo di chi l’ha abitata (ho visto un libro solo in due stanze) che non bisogna fare affidamento sulle mance che un tempo raddoppiavano lo stipendio e oggi sono il più delle volte un lascito micragnoso se non offensivo, che la servitù vive nei meandri, nei sotterranei, nei corridoi, nel retro, laboriosa e non vista, come un esercito di formiche. Abbiamo anche imparato che a certi clienti piace intrattenersi con le cameriere e che qualcuno, quando si sente un po’ solo, le chiama e poi si fa trovare a letto, oppure apre la porta completamente nudo. Può anche capitare che qualcuno desideri solo chiacchierare. A Elizabeth è successo. Un giovane e bel manager straniero l’ha fatta entrare, l’ha guardata fare il letto, le ha dato il biglietto da visita, le ha detto che voleva rivederla, l’ha aspettata fuori dall’albergo, l’ha chiamata e le ha fatto la corte. Oggi è l’ultimo giorno di formazione e verificano con un test che cosa abbiamo appreso. Una delle domande è: «Chi è un cliente vip?». Nel linguaggio alberghiero li vip è un cliente che paga il prezzo pieno e non il dipendente di una ditta convenzionata. Fra le risposte possibili c’è n’è una trabocchetto che dice: «Un cliente con un’anomalia fisica», Anna credeva fosse uno che beve tanto. Ma è straniera e la prendono lo stesso. Anzi, ci prendono tutte, ci prenderebbero già fin da domani, ma solo una può. La prima governante ci avvisa: «Questa volta vi ho chiesto se potevate lavorare domenica, le prossime volte non ve lo chiedo più, se potete bene, altrimenti cercheremo qualcuno più disponibile». Mi mandano all’ufficio della Horecca per la firma del contratto. Il lavoro è nell’albergo, ma il rapporto di lavoro si discute con l’agenzia, il contratto si firma con lei e anche il pagamento lo si riceve lì, il 15 del mese dopo. Nell’ufficio un’impiegata mi spiega che mi hanno assunto per quattro giorni, il periodo standard per capire reciprocamente se si vuole continuare. Però c’è un problema, io domenica e lunedì non posso, martedì è il giorno dello sciopero generale e non possono assumere loro perché è vietato dalla legge. La ragazza appare dispiaciuta. «Ma quel giomo non avrei potuto lavorare in ogni modo, no?», azzardo io. «No», risponde lei, «perché non possiamo assumere solo per quel giorno, ma se qualcuno è già in servizio può lavorare». «E i colleghi che scioperano non protestano?». Nessuna risposta diretta, ma un commento: «Be’, più che altro non conviene a lei perdere un giorno di lavoro su quattro. Certo, se vuole scioperare nessuno glielo vieta perché con questo contratto lei ha gli stessi diritti degli altri dipendenti». Comincio mercoledì. Consegno il libretto di lavoro e firmo un foglio che riporta i dati dell’impresa utilizzatrice, i miei, le mansioni, il periodo di assunzione, l’orario di lavoro, il livello e la retribuzione: 5,74 euro lordi all’ora. Anna, che è accanto a me, resta interdetta: è meno di quanto si aspettasse, meno degli altri lavori che ha fatto. la ragazza dell’agenzia si affretta a tranquillizzarci dicendo che al momento del pagamento sarà compreso anche il trattamento di fine rapporto e le ferie maturate e non godute: «Per cui la cifra è un po’ più alta», aggiunge. Cioè si arriva a 6 euro lordi all’ora. E il pasto? «In mensa, e vi costa solo una trattenuta di 800 lire al giorno». Che buoni. Mercoledì 17. Per la prima volta sola. Mi hanno affidato un programma ridotto che tiene conto della mia inesperienza: solo cinque camere. Fra queste c’è una suite piccola, cioè camera, stanza di ricevimento e due bagni, che costa la modica cifra di 1.800 euro al giorno, lasciata libera da uno spagnolo appena partito, un vip, un vero ricco dunque, che ha concesso anche la mancia bene in vista sul letto candido: cinque centesimi. Ha lasciato anche dei segni corporali di sé, nel water. Ci hanno insegnato che per non rovinarsi la schiena bisogna piegarsi sulle gambe, accovacciate. Lo faccio, pensando che sto pulendo e fissando negli occhi la merda di un ricco per 5,74 euro lordi all’ora. In mensa incontro Carmen che mi dice che ieri, giorno di sciopero, le sono toccate 19 camere. E riuscita a finirle solo perché l’hanno aiutata in tre, ma è stata dura. Alla faccia dello sciopero. Giovedì 18. Le camere sono diventate sette. Il lavoro è ripetitivo, solitario, pesante. Non si parla con nessuno, si è sole con i letti da spostare e rifare, con i pesi da trasportare, sole a tirare a lucido lavandini pieni di peli, specchi macchiati di dentifricio, water appiccicosi per il piscio volutamente schizzato fuori dalla tazza. Non si vomita perché si perderebbe tempo e poi toccherebbe pulire. Di mance, neanche l’ombra. A tavola, tre giovani facchini si siedono accanto a me. Sono inveleniti contro i colleghi che non hanno scioperato martedì, imprecano contro questo posto «che», dicono «all’inizio ti sembra bello perché è grande, lussuoso e ci sono tanti vip, ma poi ti accorgi che ti spacchi la schiena per due lire». Quasi che lo avessero sentito, gli squilla il telefono. è la governante che lo chiama. «Ma sto mangiando». E lei: «I clienti arabi stanno partendo e vorrebbero lasciare un ringraziamento. Se non vieni tu li prendo io». Corre anche perché gli altri dicono che gli arabi sono i più generosi. «Una volta», dicono, «hanno lasciato una mancia che era come due stipendi: 1.200 dollari. Ma capita molto raramente». Venerdì 19. Nove camere e un altro piano. i rapporti umani con i colleghi sono ridotti alla pausa pranzo, ingollato di corsa. Chiacchiero con Miriana, interinale come me, una rumena alta, giovane e bellissima. Ha fatto il corso prima di me ed è chiamata regolarmente, ma a singhiozzo: una settimana di lavoro e quattro giomi a casa, un’altra di lavoro e quattro a casa, è diventata una regolare dell’interinale. Le chiedo qualcosa sul suo Paese e si stupisce, qui nessuno si interessa alle persone. Miriana dice che stava meglio in Romania, qui non le piace perché gli italiani non sono buoni, ma non si spreca in particolari. Le guardo le mani arrossate e gonfie perché per fare più in fretta non usa i guanti. «Ti piace questo lavoro?». Alza le spalle come per dire «C’è di peggio nella vita». La governante mi chiama per dirmi di passare all’ufficio della Horecca. Incontro le compagne di corso e scopro che Mercedes ha abbandonato prima ancora di iniziare, Svetlana e le altre sono state confermate fino ai primi di maggio quindi hanno venti giorni di lavoro assicurato. Tocca a me. Mi dicono che vorrebbero prorogare il periodo di assunzione di un giorno, proprio domenica, e poi si vedrà. Mi chiedono come va. Io ho deciso di uscire da questa recita, ma non dall’incognita, e dico che non mi aspettavo fosse così pesante fisicamente, per cui basta. Ci restano male, non se l’aspettavano. Sabato 20. Ultimo giorno e 23 camere: 11 da pulire, il resto da controllare. Alle 13, dopo il pranzo insieme, Miriana si offre di aiutarmi e comincio a capire che cosa intende quando dice che gli italiani non sono buoni: è bastato parlarle e si è sentita una persona, non solo una macchina per le pulizie. Alle 15 sono nel panico perché ho ancora quattro stanze. Mi mandano una collega fissa e superveloce che mi incita a non mollare. Fa questo lavoro da otto anni e le chiedo come fa a resistere. «Ti ci abitui», risponde, «e poi quando hai un lavoro fisso te lo tieni bello stretto anche se non ti piace». Una governante viene a salutarmi e mi dice che le dispiace che non continui, ma che mi capisce. Carmen mi confida che la madre le avrebbe trovato un lavoro fisso nella mensa dove lavora lei e quindi pensa che lascerà l’albergo, Svetlana è contenta perché ha i contributi pagati e uno stipendio fino a metà maggio, Anna è frastornata perché non riesce mai a finire in tempo, Elizabeth continua ma spera la richiamino nella fabbrica che fa borse. «Lì mi danno otto euro netti all’ora e non è così faticoso». Le faccio una domanda provocatoria: «Ma non ti incazzi a lavorare come una bestia per gente che in un giorno di albergo spende quanto tu guadagni in un mese?». «Non ci penso. Comunque anche con le borse è così, sai? Ci pagano meglio, ma facciamo le Chanel. Il mio fidanzato lavora lì, mette i prezzi e ha visto quanto costano. Un milione e mezzo di lire ognuna, e alcune, quelle di coccodrillo su ordinazione, 35 milioni». Fuori c’è il sole e lo ho la schiena a pezzi. Ci vorrebbe un massaggio, ma uno al giorno. Faccio due calcoli rapidi. Se fossi una vera lavoratrice interinale guadagnerei circa 33 curo netti al giorno, finché lavoro. Un massaggio a Milano ne costa 40. Le vere lavoratrici interinali dicono che risolvono la questione della enorme stanchezza fisica così: appena a casa si stendono sul letto per mezz’ora. Poi ricominciano con le pulizie della loro casa. Ma le vere interinali hanno anche un altro problema: che cosa succederà di loro a fine contratto? Aspettano, o si trovano un altro lavoro interinale, come Elizabeth, nella speranza di poter incastrare i due. L’importante è essere libere e disponibili alla chiamata, che non si sa quando arriva né per quanto tempo. Dipende dalle esigenze del datore di lavoro. Che non paga una lira in più per compensare la disponibilità. Tanto c’è sempre qualche bisognoso che dice sempre di si. Quattro giorni dopo. Il cellulare squilla, è un’impiegata della Adecco/Horecca. Visto che ho smesso con l’albergo a cinque stelle perché il lavoro era pesante mi chiedono se vorrei provare con un tre stelle, meno camere, e magari anche la caffetteria. So che mentono perché tutte le colleghe mi hanno detto che negli alberghi più piccoli e meno esigenti le camere sono anche 24 e la paga leggermente inferiore. Declino con una scusa e saluto. Ci restano male, anche questa volta. Perché di cameriere, interinali, c’è bisogno come il pane. Un mese dopo. è il giorno di paga. Devo passare all’agenzia. Penso di trovare un assegno. Invece c’è la busta paga e un foglio con il quale devo presentarmi a una banca per riscuotere. Le voci sono correre: retribuzione, liquidazione ferie, ex festività, tredicesima, quattordicesima. Il lordo è 268,44 euro, il netto 244,61, cioè 473,631 lire. Prima di me c’è un ragazzo tutto contento perché lo hanno appena assunto come facchino. Prima di andarsene gli viene un dubbio. «Se lavoro di domenica», dice, «vengo pagato il doppio?». L’impiegata dell’agenzia gli spiega che no, il doppio di paga si riceve per le festività, come il primo maggio e Natale, e che la domenica non è considerata festività ma giorno di riposo. Lui fa si, si con la testa, ma si vede che non ha capito la differenza. E non obbietta. Non sa ancora di essere entrato nella schiera di lavoratori usa e getta. Mariangela Mianiti