Goffredo Buccini Corriere della Sera, 20/07/2002, 20 luglio 2002
Eminem, poeta della rivolta dei brufolosi, Corriere della Sera, sabato 20 luglio 2002 Buffalo (Stato di New York)
Eminem, poeta della rivolta dei brufolosi, Corriere della Sera, sabato 20 luglio 2002 Buffalo (Stato di New York). Buio, momento di silenzio, trillo di cellulare: «Sì, ma’, non ancora, ma’, a tra poco, ma’, uffa, ma’». Jeremy è alla quarta canna e alla sesta telefonata di sua madre. I suoi amichetti si danno di gomito, ma non c’è da fare tanto gli spavaldi, perché poi tocca a tutti: fuori di qui, lontano da Eminem, attorno all’Arena di Buffalo dove stanno compressi a migliaia - faccette pulite e capelli corti, molti cappellini da baseball e pochi piercing, portatili all’orecchio e stick fluorescenti in pugno per disegnare nell’aria trame verdi a tempo di rap - ad aspettarli in agguato ci sono papà e mamma, la vita da college e la ”fucking family”, la stramaledetta famiglia di cui parla il loro menestrello: «Mi chiedo se quel finocchio di mio padre mi abbia mai dato il bacio della buonanotte, spero che crepi/ scusami ma’, selfish bitch, baldracca egoista, io per te sono morto, brucia all’inferno». Jeremy fa appena a tempo a prosciugare lo spinello che il menestrello arriva, squarciando il buio. Bagliori. Scritta gialla su tenda rossa: ”Eminem Show”. Boato, tutti in piedi. Si illumina uno schermo gigante, una grande E ruota nel display come il logo di un telegiornale. Poi partono le facce - che facce! - e gli spezzoni montati in sequenza: Lynne Cheney che pare Monna Morte e dice «sono veramente disgustata dal rap di Eminem» davanti alla commissione commercio del Senato; i senatori del Montana e del Nebraska che le vanno appresso come pesci bolliti, «effetti violenti, musica antisociale»; tromboni e parrucconi d’America a seguire, «l’uso di droga tra i teenager è in aumento»; «è andato troppo oltre?», si chiede quindi un giovane fighetto incipriato della Cnn. Un’orgia di nemici che ti fa venire subito voglia di rollare la quinta, peggio dei professori che domani stanno in agguato in classe: quel che ci vuole per scaldare i ragazzi, molti al di sotto dei diciotto anni, qualcuno ancora con l’apparecchio per raddrizzare i denti, fidanzatini mano nella mano, quasi tutti bianchi travestiti da neri (come Eminem, del resto), che sono il pubblico incavolato ma normalissimo, un po’ stravolto ma educatissimo (niente birra né alcolici, solo marijuana e adrenalina, grazie) di questa prima serata dell’Anger management Tour di Marshall Mathers III, in arte Eminem o, per i fratelli rapper, Slim Shady: un pubblico di figli nostri, tutti con una possibile particina in American beauty, nel canovaccio della provincia che produce perbenismo e mostri compiti, come Eric Harris, uno dei due baby-killer del liceo Columbine di Littleton. E infatti anche a Eric è dedicata White America, il vero manifesto politico del menestrello e del suo popolo: «Potrei essere uno dei tuoi figli, America Bianca/ proprio come il piccolo Eric». Qui, volendo, qualche brivido è consentito: ma Eric Harris non l’ha certo creato Eminem, aveva dei genitori, prendersela col rapper è come guardare il dito anziché la luna. Eminem ha toccato un punto, un nervo, e può dirlo in un comizio, sul palco, come al bar dell’albergo dove si stravacca in attesa della serata: «Nessuno ha niente da eccepire se l’hip hop infuria a Harlem, tutti si spaventano se rompe le scatole a Boston». L’operazione è semplice e geniale: il biondo menestrello di Detroit («fossi nero avrei la metà del successo», ammette) s’è appropriato della cultura di protesta dei ghetti e adesso la vende ai ragazzi bianchi che non sapevano più come esprimere il «dolore imbottigliato nell’anima»: è il Caronte che accompagna i brufolosi fan nell’inferno di una rivolta, per ora, solo parolaia. Balza sul palco con una bandana a stelle e strisce in testa e grida: «Avete preso tutti le pilloline viola?» («sìììì!»), «Non mi morite tra le braccia, ragazzi di Buffalo!» («noooo!»). Le statistiche dei parrucconi dicono che, nel 2000, tre milioni di ragazzini americani hanno pensato al suicidio, ma non spiegano perché. Eminem l’ha capito, perché ha provato pure lui a togliersi di mezzo con un’indigestione di Tylenol. Non è fasullo, non ancora, almeno: e loro, i cuccioli furibondi, lo sentono. Parla per loro, quando dice «vorrei fare pipì sul prato della Casa Bianca, spappolare il grugno al Senato, sputare liquore in faccia a questa democrazia ipocrita». Sbeffeggia per loro il moralismo delle ”suburban moms”, le mamme d’America sempre incombenti, quando grida «vaffanculo signora Cheney, vaffanculo Tipper Gore» (le due vice First Lady che, una dopo l’altra, hanno provato a tirargli le orecchie) e si porta dietro ventimila voci quando manda ancora un salutino alla propria mamma: «Tutti in coro, fanculo Debbie!». Lo sfondo è a metà tra circo Barnum e luna park, con tendone e ruota panoramica: «La mia vita è un dannatissimo show, tutti a tenermi d’occhio», dice lui. E chi dei ragazzini non lo pensa ogni minuto? Questo loro fratello maggiore è frainteso come tutta la generazione che rappresenta: accusato di omofobia, è stato benedetto da un’icona gay come Elton John. In realtà prende a calci soprattutto le lobby (inclusa quella gay) e la dittatura del ”politicamente corretto”. Le femministe lo accusano di machismo, ma le ragazzine impazziscono quando strilla: «Signore di Buffalo, volevo comunicarvi che non sono più sposato, non posso essere Superman». Al divorzio con Kim (sorpresa a baciare un altro nel parcheggio d’un ristorante) dedica versi certo lontani dallo stilnovo: «Non mi lascerò più fregare da una pollastra, baciami il sedere». Ma chi non lo direbbe alla squinzia da cui è stato tradito? Il rito liberatorio dura meno del solito, un’ora e dieci: «Tanti spunti lasciati cadere», mormora qualche palato fino. Ma chi se ne frega. Ai ragazzi basta. Alle mamme avanza. Ormai impazienti, davanti a una fila di Mercedes e Limo, aspettano all’uscita i cuccioli da riportare a cuccia: non sanno cosa le aspetta, bitches. Goffredo Buccini