Aldo Cazzullo La Stampa, 07/08/2002, 7 agosto 2002
Pietrostefani e i libri di Dürrenmatt, La Stampa, mercoledì 7 agosto 2002 Parigi. Coloro che negli Anni 70 progettavano di prendere il potere indulgevano a volte, chi per svago e chi no, a discutere la lista dei ministri del loro governo
Pietrostefani e i libri di Dürrenmatt, La Stampa, mercoledì 7 agosto 2002 Parigi. Coloro che negli Anni 70 progettavano di prendere il potere indulgevano a volte, chi per svago e chi no, a discutere la lista dei ministri del loro governo. Edgardo Sogno, ad esempio, vagheggiava di assegnare gli Interni a un ex comunista, Eugenio Reale. Anche nei progetti (scherzosi) di Lotta continua gli Interni sarebbero andati a un ex iscritto al Pci, espulso nel ’67 per deviazionismo. Per la sua durezza, Giorgio Pietrostefani era chiamato dai compagni Pietro, o anche Pietrostalin. Capace di dire a una delle future leader del femminismo italiano, entrata senza preavviso nella stanza delle riunioni: «Adesso esci, bussi, chiedi permesso ed entri». O di intimare a una scrittrice di successo di non presentarsi più in collants, «che così distrai gli operai». Finito il progetto della rivoluzione, l’attitudine al comando si è poi rivelata in altre forme: al momento del primo arresto per l’omicidio Calabresi, 14 anni fa, stava per essere nominato amministratore delegato di un’azienda dell’Iri. C’è però in lui anche qualcosa di giocoso e di disincantato. Le latitanze giovanili nelle case degli amici, l’ammirazione per gli irregolari, l’istinto della fuga che l’ha portato per dieci anni in Africa, poi a occuparsi di tossicodipendenti, ora a scrivere un libro sui pirati. Questa è la seconda intervista che Pietrostefani rilascia da quando, il 24 gennaio 2000, passò il confine francese alla vigilia della sentenza numero 9, quella della condanna definitiva. Quattro mesi dopo, «protetto da un cappello di feltro, imbacuccato in un giaccone forse troppo largo o forse troppo lungo», aveva detto a Giuseppe D’Avanzo: «La mia vita è ridicola. Ho 56 anni e gioco ancora a nascondino». Ora va per i 59: li compirà a novembre, quando festeggerà con una ventina di amici italiani con la consueta ”cena degli Scorpioni”. Lo scorso anno l’hanno fatta alla Closerie des Lilas, a Montparnasse. Vengono volentieri a Parigi, gli amici. Il dirigente editoriale. Il politico. Lo scrittore. Pietrostefani non ha più l’aria del fuggiasco, del braccato, del nascosto. Porta pantaloni bianchi, camicia azzurra, giacca blu. Occhiali di tartaruga. Fa il papà di una ragazzina di quasi 12 anni e di una donna di 31, che lo viene a trovare spesso. Scrive e studia alla biblioteca del Beaubourg. è un uomo profondo e tormentato, convinto che «la verità storica non esiste». Si è avvicinato alla fede, si definisce «quasi credente», dice che «in Italia la sinistra, oltre che da Cofferati, è rappresentata solo dal Papa. Sono gli unici a occuparsi dei deboli». Ha appena pubblicato da Jaca Book, nella collana Saggi sul capitalismo, La guerra corsara forma estrema del libero commercio, un libro che è anche la continuazione di un dialogo ideale con uno dei tre ”santoni” che in gioventù lo iniziarono al marxismo, Toni Negri (gli altri erano Mario Tronti e Alberto Asor Rosa). «Con Negri ci siamo sempre scritti, anche se politicamente eravamo lontani. Quand’era ancora a Parigi e insegnava all’università andavo a trovarlo. Ho letto Impero, il suo ultimo libro, e vi ho ritrovato alcune delle mie convinzioni: la fine della democrazia, l’uso autoritario delle nuove tecnologie. In America è un caso, in Francia già se ne parla, in Italia c’è chi l’ha liquidato con una battuta o con una velina. In realtà è il libro di un intellettuale vero, non provinciale, anche se su alcune cose non sono d’accordo». La tesi del libro di Pietrostefani è che la pirateria sia stata uno dei fattori della globalizzazione nei secoli scorsi, e possa esserne ora uno degli antidoti. «L’economia criminale ha sempre agevolato l’accumulazione, l’illegalità è motore dello sviluppo. Vale per la guerra corsara come per la droga, e forse valeva anche per Tangentopoli. La pirateria classica è ancora oggi fiorente; ma la sua forma moderna è la pirateria informatica. Uno dei rari modi per resistere al potere, violando i luoghi dove il potere occulta le informazioni. Le cose accadono all’insaputa di tutti. Chi è Bin Laden? Cosa succede davvero in Afghanistan? Per noi era più facile: c’erano il bene e il male, gli algerini e i francesi, i vietnamiti e gli americani. Oggi ci sono i kamikaze e l’intelligence, c’è ”la guerra asimmetrica”, per citare un altro libro importante, ed è molto più complicato. Per noi la Cia era il demonio, era il Male. Oggi è un posto di lavoro come un altro, un lavoro socialmente utile; qualche tempo fa ero a cena con un gruppo di giovani, uno di loro lavorava per la Cia, era una persona normale, non un nemico. Oggi un film come La battaglia di Algeri, con le donne che portano le bombe al mercato dentro le ceste, sarebbe censurato per apologia di reato». L’Italia è un brutto ricordo, rinfocolato dai telegiornali. Pietrostefani ne parla malvolentieri: «Mi immalinconisce lo spettacolo del qualunquismo giustizialista. Quand’ero ragazzo, il manifesto del qualunquismo giustizialista era una rivista di destra che si chiamava ”Candido” e attaccava Giacomo Mancini chiamandolo ”lader”. Non era una cosa di sinistra. Berlusconi? In Francia non sarebbe mai andato al potere. Per un imprenditore non sarebbe stato possibile, qui anche per fare il parrucchiere ci vuole il diploma». Dei leader dei nuovi movimenti, emersi dalle seconde file di quelli degli Anni 70, non ha opinioni: «Non li conosco. Di Potere operaio conoscevo Vesce e Scalzone, Negri e Piperno, che è stato espulso dal Pci insieme con me; Pancho Pardi non l’ho mai visto. Di Avanguardia operaia conoscevo Gorla, Vinci, Campi, Calamida, non Agnoletto. La lotta dei no global? Una testimonianza, forse neppure quella. Casarini l’ho visto in tv, ospite del mio compagno di scuola Bruno Vespa. E quando guardo Nanni Moretti penso che una volta avevamo Fellini e Antonioni». Una volta, anche i leader diessini stavano nel movimento. «D’Alema, sempre. In minoranza, magari, ma c’era: alle assemblee, alle manifestazioni». La molotov però non l’ha tirata, non c’erano molotov nel ’68 a Pisa, assicura Pietrostefani. Fassino era più giovane, e «gli studenti di Lotta continua lo prendevano in giro, lungo e magro com’era. Anni dopo abbiamo atteso da lui la grazia per Bompressi, invano». Violante invece era già magistrato. I leader di Lc non amano né lui, né i suoi colleghi di un tempo. Appena una battuta: «Ora mi pare che si dedichino a perseguitare il campionato di calcio, e in particolare la mia squadra, la Juve». Dell’Italia lo disturba tutto, ma soprattutto l’incapacità di suturare le ferite, di chiudere le stagioni. C’è un tema che ricorre in questo e anche negli altri due saggi che Pietrostefani ha pubblicato dallo stesso editore, sulla droga e sulla tratta atlantica degli schiavi: il riconoscimento della violenza come levatrice della storia. «Io non la apprezzo e non la pratico, eppure la storia procede in questo modo. Non dico sia positivo; è così». In Italia però la violenza assume percorsi assurdi. «Penso a una cosa raccapricciante e stupida come l’uccisione di Biagi». La cifra del paese da cui è fuggito gli pare ”la viltà”. «La gente si adegua, non discute, è acritica. Non rischia, non gioca sulla propria pelle, se non in autostrada. Il prossimo libro lo vorrei scrivere sull’Italia che non c’è, sul Risorgimento mancato. Io sono stato fortunato, mi sono ritrovato molti amici attorno, però nella mia storia ho sperimentato un’altra viltà, la viltà delle istituzioni». Non tornerà, Pietrostefani. A chi gli ricorda di quando, cinque anni fa, lasciò Parigi per entrare nel carcere di Pisa accanto a Sofri, risponde: «Lo potrei ancora fare, se mia figlia avesse almeno 16, 17 anni. Oppure se accadesse qualcosa ad Adriano. Il carcere è un luogo molto duro, ma anche la società può essere una prigione». Con i fuoriusciti che vivono qui non ha contatti, anche se ritiene che «dopo trent’anni la pagina andrebbe finalmente chiusa, come hanno fatto tutti i paesi del mondo tranne l’Italia e forse la Germania». Del passato si ritrovano di tanto in tanto i segni. Si accende la tv, Arte, il canale culturale, e danno il documentario di Cavalli con Carlo Ginzburg che ricostruisce il caso Calabresi; si apre un libro di Dürrenmatt, Il sospetto, e ci si accorge «che parla della morte di un commissario»; si va a una mostra di Morandi e pare di riconoscere la Natura morta che Giovanni Pirelli un giorno staccò dal muro per donarla a Lotta continua, «e se l’avessi tenuta, invece di darla a chi doveva venderla per la causa, avrei risolto i miei problemi». Viene Erri De Luca, capo del servizio d’ordine romano di Lc, a presentare il suo ultimo libro; viene Cohn-Bendit e si parla di quando Godard passò ai giovani ribelli i soldi ricevuti per girare un western («eravamo a Trastevere e contavamo le banconote sul materasso, ma Daniel dice di non ricordare»). Oppure, lavorando tra le carte della biblioteca del Beaubourg, ci si imbatte nella storia di John Quelch, il pirata perduto dalla delazione dei compagni: lui impiccato, gli altri graziati; «ma questa non è viltà, è infamia». Diceva sempre Dürrenmatt ne La morte della Pizia che la verità esiste, e «resiste in quanto tale se non la si tormenta». Aldo Cazzullo