Domenico Quirico La Stampa, 01/08/2002, 1 agosto 2002
Ingrid Betancourt, da sei mesi fantasma, La Stampa, venerdì 1 agosto 2002 La provincia del Caguán è un posto strano
Ingrid Betancourt, da sei mesi fantasma, La Stampa, venerdì 1 agosto 2002 La provincia del Caguán è un posto strano. I cadaveri scendono placidi giù per fiumi e torrenti. Dapprima pochi, poi divennero decine, centinaia, migliaia; scivolavano fino a quando un sasso o un tronco o una mano pietosa non li fermava. A un certo punto persino queste mani si sono stancate, perché erano troppi, e i cadaveri erano guasti, scuoiati dal coltello o con i genitali cuciti alla bocca. E non era un bel vedere. Così i samaritani decisero che potevano scendere per il fiume lasciando agli avvoltoi e agli animali il compito di trasformarli in scheletri disinfettati dal sole. Dicono che sia qui, vicino a Mesetas, che un contadino sfuggito a un terribile massacro, quando lo tirarono fuori da un mucchio di cadaveri nel suo villaggio, iniziò a raccontare con una frase che ricapitola ogni forma di orrore: «Noi morti eravamo cinquanta...»; e persino García Márquez, lo scrittore, se ne è ricordato in un articolo. In un posto simile non c’è da sorprendersi se non si riesce mai a sapere da chi viene uccisa tutta questa gente. Se chiedi a un un soldato o a un poliziotto ti assicura che quel macello è tutta opera dei guerriglieri, le Farc, comunisti e trafficanti, brutta gente che nello zaino ha la foto di Castro e il pacco di coca. Vai dai guerriglieri e giurano che è tutto falso, che quei bravi campesinos, contadini e onesti borghesi li scuoiano i soldati, o meglio gli squadroni della morte; che sarebbero gli stessi soldati ma con un passamontagna in faccia e, fuori orario, a libro paga dei signori del narcotraffico e del governo dei ricchi. Per un certo periodo i morti sono diminuiti, c’era la tregua si diceva tra il governo colombiano e i ribelli. In compenso grandi fuochi bruciavano la selva e i contadini, guardati a vista da guerriglieri in tuta mimetica, si affaccendavano a raspare gli spazi scoperchiati dal fuoco e a seminare campi verdeggianti e vigorosi di coca. Poi la tregua è finita, e adesso si ammazza di nuovo, come se si avesse fretta di recuperare il tempo perduto. Insomma un gran guazzabuglio, specchio di questo paese dove ogni anno 30mila morti ammazzati scorrono via nell’indifferenza come quei cadaveri nei fiumi. Perché una donna bella, ricca, figlia di una dinastia di ministri, sposata con un diplomatico francese, candidata alle Presidenziali, celebre, con due bei bambini, con lo charme di una parigina e la forza di una india, è venuta in questo inferno? Perché il 23 febbraio scorso, quando i militari le hanno negato un elicottero per arrivare in tutta sicurezza a Florencia, la capitale della regione, ha voluto viaggiare in auto ed è finita, naturalmente, nel primo posto di blocco delle Farc, i rivoluzionari della cocaina e del sequestro? Perché da cinque mesi è rinchiusa in qualche catapecchia nella foresta di quella che chiamano ”Farcalandia”, ostaggio volontario, dimenticato e senza speranze? A voler semplificare è la storia di un tradimento: 190 giorni in cui un paese intero, la Colombia, anche quella parte progressista moderna di sinistra che la incensava fino a ieri ha volutamente condannato all’oblio e forse a morte l’unica donna che ha cercato ostinatamente di lottare contro l’infezione della droga, della mafia, della corruzione politica. Ingrid ha scelto di venire qui, a farsi catturare e rinchiudere in gabbia, forse, otto anni fa. Quando entrò in politica e lanciò una campagna all’insegna dello slogan ”cacciamo la Narco & C”, i politici e i narcotrafficanti che si scambiano i ruoli e i soldi, e qualcuno, untuoso, a un party, le sussurrò «stia attenta, doctora, dice cose molto imprudenti, certe cose è meglio non toccarle, guardi che gira voce che c’è un ”contratto” su di lei». Forse l’idea di consegnarsi ai suoi nemici come ultima chance per sconfiggerli le venne nel ’98, quando nella sua trionfale campagna per essere eletta al Senato distribuiva preservativi ai comizi gridando alla gente, scandalizzata o in delirio, che «la corruzione era l’Aids della Colombia». Una sera, tornando a casa (con la scorta e l’auto blindata, perché già le avevano sparato cinque o sei volte per onorare quel contratto) trovò tra la posta una piccola busta con l’indirizzo scritto a mano; e dentro c’era la foto, orribile, di un bambino fatto a pezzi e sopra i nomi di Melania e Lorenzo, i suoi due figli. Che da allora vivono con il padre da cui ha divorziato perché i salotti e Parigi e le Seychelles e le chiacchiere dei party non fanno più parte della sua vita. O forse la folle impresa di diventare il primo presidente onesto della Colombia le è venuta quando la madre la portava nel collegio che aveva fondato a favore dei bimbi di strada di Bogotá, tutti orfani della guerriglia e dei narcos. La mafia quando vuole uccidere comincia a isolarti lentamente, ti brucia la terra intorno, uccide i legami che hai, getta il baco del dubbio tra chi ti vuole bene e ti stima, avvelena tutto quello che fai. E poi, alla fine quando sei esausto, ti ingoia come un serpente, senza fare rumore, quasi per necessità. La condanna, ”il contratto”, per Ingrid qui l’hanno firmato in due: questo è un paese dove tutto ha il suo doppio. C’è la mafia che sta al governo e in politica, vestiti di buon taglio, che elegge i presidenti e tratta con Bush per sradicare la coca e con i cartelli per incrementarla. E c’è la mafia di sinistra, rivoluzionaria, castrista che parla di rivoluzione e poi vende nelle strade di Washington e Denver a trecento dollari la coca che fa coltivare per due dollari al chilo ai contadini. Tutte e due hanno giurato di liberarsi di questa fastidiosa pasionaria, questa donnetta tenace che ha sputato sul suo mondo, ha rinnegato il salotto di casa dove passavano Asturias e Botero e lei, bambina, si nascondeva sotto il pianoforte per ascoltare García Márquez. Ma che vuole? Perché va in tv e mostra le prove che l’ex presidente Samper nel ’96 aveva preso i soldi per la campagna elettorale dai fratelli Rodríguez, che sarebbero i presidenti del cartello di Calí? Ecco allora che il veleno comincia a scorrere: raccontano che è una intrigante ambiziosa, che è una ecologista (in un posto di rivoluzioni e morti amazzati è quasi un insulto), che è una ”francese” non una colombiana, che la sua campagna contro le bustarelle prese dal ministro della Difesa per una fornitura di fucili in realtà è una ripicca perché il contratto interessava al suo ”fidanzato”, commesso viaggiatore della Colt. Così Ingrid è rimasta sola, giorno dopo giorno: i comizi dove distribuiva pastiglie di Viagra ”per rivitalizzare la Colombia” sollevavano solo sghignazzi e le denunce dei laboratori Pfizer. Non le restava che una mossa, disperata, definitiva, folle: farsi catturare, diventare un ingombrante fantasma. Il suo silenzio, la sua solitudine di ostaggio rischiava di essere più fragorosa e pesante che il suo due per cento di candidata. I colombiani in questi cinque mesi nel frattempo hanno eletto il Presidente, uno dei soliti, quelli dei salotti e dei discorsi contro la droga e la corruzione. Lei appare in un video, i lunghi capelli castani, il bell’ovale di madonna appena sgualcito dalla prigionia, e accusa implacabile: mi avete dimenticato. Chissà se nei registri della criminale narcoguerriglia che qualcuno, anche in Europa, si ostina romanticamente a considerare guevarista e ”buona” (tremila sequestri l’anno) è segnata sotto la voce ”detenzione di persone a scopo economico”; oppure in quella che chiamano ”pesca miracolosa”? Sono le persone catturate ai posti di blocco volanti sulle strade e scelte in base al lusso dell’auto. Forse con Ingrid hanno commesso un errore. Domenico Quirico