Vittorio Zucconi, la Repubblica, 08/08/2002, 8 agosto 2002
Chi pensa che il capitalismo sia uguale in tutto il mondo si sbaglia: Dennis ha tende per la doccia da seimila euro, la Repubblica, giovedì 8 agosto 2002 Washington
Chi pensa che il capitalismo sia uguale in tutto il mondo si sbaglia: Dennis ha tende per la doccia da seimila euro, la Repubblica, giovedì 8 agosto 2002 Washington. Insaponato dietro la sua tenda da doccia costata 12 milioni di lire, a cena sulla Costa Smeralda firmando un conto da quattro miliardi, a galla sull’acqua della piscina nella villetta in Florida da 38 miliardi, Dennis Kozlowski teneva il mondo in pugno. A 55 anni, figlio di un poliziotto di Newark, cresciuto tra fetide ”delicatessen” italiane e taverne con le sbarre alle finestre, Dennis non era piú un uomo ricco. Era un dio, un paradigma, una copertina in carta patinata, un ”guru” come dicono le frasi fatte giornalistiche, era il prodotto mirabile ed esemplare dell’ideologia dominante negli anni ’90, il culto fondamentalista del sorridente e benigno ”creatore di ricchezza” per tutti. Peccato che Dennis Kozlowski fosse, dietro la sua tenda di plastica dipinta con motivi in oro e porpora, semplicemente, un ladro. Se la sua storia non fosse stata scritta dagli investigatori di un governo di destra come questo di Bush e raccontata da un giornale insospettabile di tenerezze cofferatiane come il ”Wall Street Journal”, la vita e le imprese del signor Kozlowski sembrerebbero apologhi da metalmeccanico incazzato o parabole per fissati del falso in bilancio. Invece, lui, come Fastow, come Rigas, come Ebber, come la mezza dozzina di ”presidenti” e ”amministratori delegati” e ”tesorieri” già in galera, non era l’eccezione, era soltanto l’eccesso. Era il pastore esemplare di quella colossale tosatura degli azionisti, chiamata, fino a ieri, il ”boom” e oggi il ”crack”. Quelli che anche Bush, che pure di quella ideologia è stato il fiorellino politico depositato a Washington, chiama i cavalieri dell’easy money, del danaro facile. E ora tremano al pensiero di dovere firmare col proprio nome i bilanci, come richiede la nuova legge e dovranno farlo entro il 14 agosto. Nel silenzio dei mass media trasformati in muezzin cantilenanti della nuova fede, nella complicità della politica comperata con le ”dazioni”, delle case di Borsa, dei revisori dei conti e delle stesse pecore risparmiatrici convinte di essere diventate leoni, il figlio del poliziotto di Newark aveva preso in mano, nel 1992, una rispettabile corporation dai molti interessi, la Tyco, famosa - suprema ironia - per la feroce avarizia del suo vecchio presidente. Nella spoglia palazzina del puritano New Hampshire dove la Tyco aveva il suo quartier generale stipato in tre piani, il Presidente arrivava ogni mattina al volante di una vecchia Oldsmobile senza aria condizionata né autista. I pochi dipendenti, che costavano appena 14 miliardi lordi annui, avevano l’obbligo di consumare sandwich al tavolo di lavoro e la proibizione di metterli in conto spese. Un piccolo mondo antico e onesto da ”scagno” genovese che nel 1992 entra in una dimensione che al fondatore di Tyco sarebbe sembrata surrealistica. Ai comandi c’è ora Dennis Kozlowski. Assorbe la piú importante società mondiale di allarmi e sicurezza elettronica, l’Adt, quella che dieci anni dopo sarà chiamata a proteggere anche Giovanni Paolo durante il soggiorno a Città del Messico. Trasporta lo scagno in una scintillante sede in Florida, nella glamorous Boca Raton, a pochi passi dalla villa che lui comprerà proprio dal presidente spodestato della Adt, le spoglie al vincitore, come vuole la nuova ideologia. E, con la crescita della Tyco, arrivata oggi a vendite annuali per 10 miliardi di dollari in 100 nazioni con 100 mila dipendenti, Dennis viene assunto nel cielo dei settimanali, dei talk show, della pseudo politica e delle profezie economiche. Le sue parabole su come sciogliere la forza della ”Corporate America” dai lacci e lacciuoli dei controlli pubblici sono ascoltate con religiosa attenzione. Per lui, si mormora di un futuro in politica. Quello che il profeta e i suoi muezzin non dicono e che i bilanci annuali sfacciatamente falsi non registrano, sono i milioni di dollari che lui attinge dal salvadanaio di una compagnia che essendo ”pubblica”, cioè quotata in Borsa e proprietà dei suoi azionisti, deve rispondere di ogni centesimo uscito o entrato. Eppure Dennis non sarebbe mal pagato. Soltanto negli ultimi quattro anni, il monte dei suoi emolumenti legittimi raggiunge, dice ora il fisco americano un po’ seccato, 400 milioni di dollari, 800 vecchi miliardi. Ma non gli bastano. L’uomo ha molte spese. Il divorzio dalla prima moglie, scaricata in cambio di una bella, forse bionda e giovane cameriera rimorchiata al bar che si farà, saggiamente, sposare. Le vacanze, un po’ dispendiose, come un soggiorno in Sardegna, isola notoriamente non a buon mercato, che gli presenta un conto per 2,1 milioni di dollari, messo in nota spese per ”riunioni di lavoro”. I due jet personali. Il motoveliero da 150 piedi, 50 metri, costruito per lui in Italia. La villa fronte mare di Boca Raton, l’enclave della Florida dove i veri ricchi si sono rifugiati dopo avere abbandonato Miami alla cafonaggine provinciale dei turisti stranieri, che gli costa 19 milioni di dollari, da ristrutturare. I sei milioni per la ristrutturazione, curata dalla moglie che esige tende personalizzate per la doccia, da 6 mila dollari l’una, finemente istoriate con motivi rosso e oro in vernice indelebile, gusto pompier tardo Versace. I tre milioni per acquistare la villa accanto, che lui fa radere al suolo per fare spazio a un nuovo campo da tennis. Quello originale era orientato al sole in maniera sbagliata, spiegherà al progettista. Un bello spendere, ma che la sua busta paga avrebbe potuto facilmente affrontare. Ma perché consumare del proprio quando c’è il tesoro dell’azienda a disposizione, quando sei protetto dall’ ideologia del tempo? Il figlio del poliziotto cresciuto nelle Mean street, nella stradacce di Newark di Philip Roth cantate dal boss Springsteen, si fa prestare i soldi dall’azienda. In tutto, secondo il ”Wall Street Journal” e il fisco, si fa prestare 135 milioni di dollari, 270 miliardi di lire, senza interessi. Sarebbe già un bel favore, ma perché pensare in piccolo? Dopo un anno, il consiglio d’amministrazione gli ”perdona” i debiti. I prestiti diventano regali, ”dazioni”, nell’ormai obsoleto gergo di Mani Pulite. Cifre che i bilanci non registrano, perdite che è meglio tenere nascoste alle pecore con i fondi d’investimento e i fondi pensione. Ma l’11 settembre e gli eccessi dei ladri bucano la bolla. La stampa si scuote dall’incantesimo e capisce che la crisi sta minacciando le radici, e non piú soltanto i frutti, di un sistema così spudoratamente abusato. Bush invoca addirittura lo spirito del proprio opposto ideologico, Franklyn Roosevelt, per firmare nuove regulation, nell’ansia delle elezioni politiche di novembre, che neppure i tamburi di guerra sull’Iraq battuti furiosamente al Pentagono potrebbero far vincere al suo partito repubblicano. Sul ”Washington Post”, un economista come Robert Samuelson esalta il ricordo di Pierpoint Morgan, il finanziere che veniva additato come la caricatura del ”padrone in colletto di astrakan”, ma aveva almeno vegliato sulla decenza della Borsa e delle Corporation, sostenendo che il capitalismo si fonda su un principio irrinunciabile: ”l’integrità” dei capitani dell’industria e della finanza. E la lana comincia a cadere dagli occhi del pubblico. Il vice presidente Cheney, che è sotto inchiesta nel sospetto che abbia fatto alla guida della Halliburton petroli quello che oggi viene rimproverato alle ”mele marce” come Kozlowski, è interrotto maleducatamente, ieri, mentre parla a un forum economico da una giornalista che gli chiede conto delle sue azioni e poi da un gruppetto di ragazzi e ragazze che gli gridano ”ladro, ladro” prima di essere sbattuti fuori. Attenti al ruggito delle pecore tosate. Vittorio Zucconi