Anna Masera La Stampa, 08/08/2002, 8 agosto 2002
Chi pensa che il capitalismo sia uguale in tutto il mondo si sbaglia: Azim si lava da solo la tazzina del caffè, La Stampa, giovedì 8 agosto 2002 Vive in maniera modesta e indossa jeans scoloriti
Chi pensa che il capitalismo sia uguale in tutto il mondo si sbaglia: Azim si lava da solo la tazzina del caffè, La Stampa, giovedì 8 agosto 2002 Vive in maniera modesta e indossa jeans scoloriti. Secondo ”Le Nouvel Observateur”, che gli ha dedicato un profilo nella sua serie sui ”nuovi nababbi”, il girasole dai colori arcobaleno ricamato nella sua camicia sembra il distintivo del cassiere di un supermercato. E invece è il simbolo della sua azienda di software indiana, la Wipro, che per anni ha prodotto - di padre in figlio - olio commestibile e saponette, prima di trasformarsi in un leader dello high tech. La rivista ”Forbes” lo ha inserito nella sua classifica annuale dei miliardari del pianeta. è Azim Premji, soprannominato il ”Bill Gates di Bangalore”, e ancora un ”maharajà del XXI secolo”. Del lusso e dello sfarzo di cui si circonda un maharajà ha ben poco. Ma al fondatore della Microsoft assomiglia per diversi aspetti. Innanzi tutto, per la ricchezza personale. Premji vale 6,5 miliardi di euro, il che lo rende il quarantunesimo uomo più ricco del globo. Ma per una settimana, all’inizio del Duemila, quando la Borsa ancora andava a gonfie vele, è arrivato secondo proprio dietro al re del software di Seattle. La capitalizzazione della sua società, di cui detiene l’80 per cento delle azioni, superava allora i 50 miliardi di euro alla Borsa di Bombay: vale a dire, l’equivalente del bilancio di tutta l’India, un paese di un miliardo di abitanti. «Quando il titolo è crollato, la cosa non mi ha fatto né caldo né freddo», ha commentato imperturbabile in un’intervista a ”Business Week”. Infatti, dalla fine del Duemila, il valore dei titoli tecnologici è crollato: oggi Premji è otto volte meno ricco, ma resta il più fortunato degli indiani. Non ha nemmeno bisogno di riservarsi un salario esorbitante: meno di 300 mila euro all’anno, tutto compreso. Niente male, per un paese in cui il reddito annuo medio pro capite è ufficialmente di 200 euro. Per arrivare fin dove è arrivato, Premji, 57 anni, ha trasformato la drogheria di Bombay creata da suo padre nel 1945 in un’azienda leader di informatica, con 14 mila dipendenti in tutto il mondo e un fatturato di 700 milioni di euro nel 2001. La Western India Vegetables Products, nata come azienda produttrice di verdure dell’India Occidentale, è diventata Wipro, una delle imprese più rispettate dagli informatici di tutto il mondo, l’orgoglio del ”made in India”. Anche se la marca del suo software non è molto conosciuta dal grande pubblico, Wipro vanta tra i suoi clienti aziende del calibro di Alcatel, Nokia, General Electric, Thomson Multimédia e «perfino la Microsoft», come si legge nella sua presentazione alla stampa (sul sito www.wipro.com). Questo successo Premji lo deve sicuramente alle proprie capacità, ma anche al governo indiano, che si è lanciato negli anni Settanta in una grande campagna per nazionalizzare l’industria e favorire il trasferimento di tecnologie. Le multinazionali non hanno apprezzato. Il gigante americano Ibm ha lasciato il paese, così come la Coca-Cola. «Mi sono detto che allora qualcuno doveva rimpiazzare la Ibm, e che questa sarebbe stata per noi l’opportunità di evolverci verso il mondo informatico», spiega Premji. è stato lui per primo ad avere l’idea dell’offshore: fabbricare software chiavi in mano, sul posto, per aziende straniere. Sedotti inizialmente dai prezzi (più bassi del 70 per cento grazie ai bassi costi della mano d’opera locale), i suoi clienti sono rimasti colpiti poi dalla qualità dei prodotti: la Wipro è stata la prima società al mondo a ricevere la certificazione CMMi 5, premio d’eccellenza che Premji non scambierebbe nemmeno per un premio Nobel. Nel 1996 Premji ha spostato la sede centrale della Wipro da Bombay a Sarjapur Road, nella periferia di Bangalore, la capitale del Karnataka (uno dei 25 stati indiani), quinta città del Paese con 5 milioni di abitanti. In questa esotica Silicon Valley c’è sempre un sole cocente, ma l’atmosfera è respirabile grazie a un lieve venticello. La sede della società somiglia a un villaggio turistico: piscina, due campi da tennis e uno da basket, che però i dipendenti utilizzano per giocare a cricket, lo sport nazionale. Per far fronte alla mancanza di infrastrutture la Wipro si è resa autosufficiente dall’arretratezza tipica del resto dell’India: per esempio, per far fronte ai quotidiani black-out elettrici, si è installata tre generatori diesel. E ha affittato autobus dallo Stato per trasportare i propri dipendenti al lavoro, mattina e sera, tra vacche sacre e elefanti, che fanno parte del traffico quotidiano. Sebbene non faccia una piega per le perdite in Borsa, Premji è noto per il suo stakanovismo: «Lavora dodici, quattordici ore al giorno. L´azienda è la sua ossessione» dicono di lui i collaboratori più prossimi. Pranza alla mensa aziendale a 20 rupie (0,5 euro) a pasto, e si accontenta di dissetarsi con la ”Thumbs Up” (pollice in alto), la versione locale della Coca-Cola. I dipendenti raccontano con stupore che si lava la tazzina del caffè nell’angolo cottura dell’ufficio: lo considerano un grande segno di rispetto per gli altri. Un anno fa il gruppo islamico Lashkar ha minacciato di attaccare la sua casa di Bangalore per attirare l’attenzione internazionale. Un pericolo che non ha indotto Premji, di origini islamiche ma dichiaratamente non religioso, a ricorrere alla scorta. Ci tiene alla discrezione e fa di tutto per non mettersi in mostra. Condivide la sua unica dimora con la moglie a Bellandur, nella periferia di Bangalore. «Una casa semplice ma di buon gusto» assicurano gli amici. Guida una vecchia Ford grigia, che manca poco gli tocca spingere. E i suoi figli non sanno cosa sia il lusso. E così, come Bill Gates, forse anche per non essere tacciato di avarizia, ha donato 20 milioni di dollari per la creazione, nel Duemila, della Wipro Cares, una fondazione per l’educazione dei bambini. Per la fondazione (www.azimpremjifoundation.org) ha fissato obiettivi ambiziosi, come per l’azienda. Ma mette la ragione davanti ai sentimenti. Infatti, alla domanda se soffre quando vede una donna povera con un bimbo fra le braccia che chiede l’elemosina, risponde: «No, ma so che bisogna fare qualcosa». In India metà della popolazione è analfabeta, e per Premji l’unico modo di uscirne è ricevere un’educazione. «Bisogna saper sognare» ama ripetere. E ancora: «L’unica cosa che l’India ha da perdere, è la miseria». La stampa indiana lo presenta come il classico ”self-made-man”. Aveva solo 21 anni quando ha preso le redini dell’azienda, nel 1966. Ha dovuto lasciare l’università americana di Stanford prima di laurearsi in ingegneria (ma otterrà la laurea trentatre anni più tardi), perché dopo la morte del padre i fratelli non si interessavano agli affari di famiglia. Poco a poco, ha imposto i suoi metodi, rifiutando l’abitudine alla corruzione a costo di costruirsi le infrastrutture a proprie spese. è stato il primo imprenditore indiano a distribuire stock-options ai propri dipendenti. E continua a sconvolgere la mentalità locale. Per esempio, i suoi figli non lavorano alla Wipro: uno è alla General Electric negli Usa, l’altro alla Customer.com, una start-up di Bangalore. E non è previsto che gli succedano. Una situazione poco comune in India. «Sono troppo giovani, sarebbe complicato per loro, viste le dimensioni dell’azienda» si giustifica Premji. La ragione prima dei sentimenti, ancora e sempre. Anna Masera