Marco Magrini Il Sole-24 Ore, 31/07/2002, 31 luglio 2002
Contro le mele marce di Wall Street serve più informazione, Il Sole-24 Ore, mercoledì 31 luglio 2002 A 68 anni suonati, Robert A
Contro le mele marce di Wall Street serve più informazione, Il Sole-24 Ore, mercoledì 31 luglio 2002 A 68 anni suonati, Robert A.G. Monks fa uno strano mestiere: lo shareholder activist. In poche parole, è un paladino dei diritti di una specie umana particolarmente vessata di questi tempi in America: l’azionista. Dopo una breve carriera da avvocato, anche grazie alla moglie che è una discendente dei Carnegie, nell’85 Monks ha fondato la Institutional Shareholder Services che - prima comprata da una famiglia canadese e poi ricomprata di recente dal figlio che si chiama Robert Monks pure lui - è oggi la più grande società di consulenza sui temi della corporate governance, al servizio degli investitori istituzionali. Nel ’92 Monks ha poi fondato Lens, un fondo d’investimento che è solito entrare nel capitale di aziende che vanno male e far leva sui diritti degli azionisti per rimetterle in sesto (dalla nascita a oggi, Lens ha puntualmente battuto l’indice S&P). Ma soprattutto, Monks è uno di quelli che può permettersi di dire: «io l’avevo detto». Nel suo libro The new global investors - pubblicato all’inizio dell’anno scorso, quando il Nasdaq era lontano dai minimi - Monks ha puntato con durezza l’indice sullo strapotere dei Chief executive officer americani (Ceo), implicitamente profetizzando disastri sul modello di Enron o WorldCom. Faccia un’altra profezia: la crisi che si è spalancata sui metodi e sui modi della Corporate America potrebbe aggravarsi ancora? O il peggio è passato? «No, il peggio non è passato. Adesso che dopo le imprese di energia e di telecomunicazioni è stato appurato anche il coinvolgimento del sistema bancario e finanziario, possiamo attenderci di tutto. Quando i Ceo di grandi aziende, piegano al loro volere contabili e revisori di conti, quando le norme sulla compilazioni dei bilanci - il sistema che in America è conosciuto come Gaap - vengono adattate a proprio piacimento e quando i capiazienda riescono a strappare la collaborazione della grande finanza, non c’è più limite a niente: è un disastro». Lei crede davvero che il fenomeno, che finora ha interessato una decine di aziende, possa rivelarsi molto più vasto? «Ritengo di sì. Ma il vero problema ormai è un altro: assicurare una corretta informazione, da ora in poi. In questi giorni c’è qualche analista che sostiene che, al momento attuale, il rapporto prezzo/utili di molte aziende è particolarmente conveniente. Sotto il profilo storico è vero. Ma se il denominatore di questo rapporto - gli utili - viene rialzato artificialmente a mia insaputa, come posso esprimere una valutazione attendibile sul valore di un’azienda? L’investitore ha bisogno di informazioni, ma non sa più se quelle di cui dispone sono attendibili o meno». Come valuta la legge antirapina-aziendale promulgata ieri dal presidente Bush? «Sono abbastanza soddisfatto: finalmente qualcosa s’è mosso. Ma non mi faccio troppe illusioni sul risultato finale: tutti sanno che alla fine nessuno - o quasi nessuno - verrà condannato. Cosa importa se le pene sono state quadruplicate? Il nocciolo della questione non sta nelle leggi, ma nel modo in cui vengono applicate. Ebbene: da parte repubblicana, con le elezioni di novembre che si avvicinano, non vedo un sincero entusiasmo». Soluzioni alternative? «è ora che gli azionisti si facciano sentire, a cominciare dagli investitori istituzionali come i fondi pensione, che detengono il 35 per cento dei titoli azionari emessi in America. I soci di una corporation condividono interessi comuni, eppure non cooperano. Al contrario della legislazione britannica, quella americana assicura esigui diritti agli azionisti». Beh, nella finanza americana non mancano casi di Ceo messi alla porta per l’azione dei fondi pensione o dei cosiddetti proxy. «Restano casi isolati. Non si dimentichi che i fondi pensione delle singole aziende si muovono spesso sotto l’influenza del management. Non a caso, nelle prossime ore avrò un incontro col ministro del Lavoro, Elaine Chao, durante il quale intendo evidenziare questo lampante conflitto d’interessi». A suo giudizio, quali sono i nodi prioritari da sciogliere? «Due, direi. E il primo gliel’ho già detto: c’è bisogno di una informazione credibile. E non è un problema da poco: quando avvocati, contabili e revisori sono al soldo di un importante cliente, finiscono per assecondare la verità costruita dal management. Ho esercitato la professione di avvocato, molti anni fa. E ho visto fior fiore di professionisti inchinarsi di fronte ai grandi clienti, pur di assicurarsi il lavoro». E il secondo? «In un modo o nell’altro, i Ceo - che in qualche caso si sono autoattribuiti bonus da centinaia di milioni di dollari - dovranno pur rispondere a qualcuno». Non credo che, almeno da questo punto di vista, il capitalismo familiare all’italiana (o se preferisce all’europea) si riveli molto più rassicurante del modello public company? «Non c’è dubbio: il manager di un’azienda familiare come può essere la Fiat, non ha lo spazio per spadroneggiare. E gli azionisti, come possono essere gli Agnelli, non hanno interesse nel mungere l’azienda a suo detrimento. Ma a una condizione...» E quale? «Che l’informazione su quell’azienda sia corretta. Le faccio un esempio: la Bassa Sassonia ha circa il 20 per cento delle azioni Volkswagen. Il risultato è che il 75 per cento della produzione della casa automobilistica è realizzato in quel Land, dove i costi sono assai maggiori che altrove. Il che può anche andare bene: basta che gli azionisti (o gli aspiranti azionisti) siano coscienti di questi costi aggiuntivi di natura politica». Ma è raro che una dinastia industriale si muova per fini politici... «Quel che voglio dire è che il figlio di Ronaldo non giocherà come il padre. Né quello di Bill Gates sarà per forza un genio degli affari. Allo stesso modo, è illogico pretendere che tutte le generazioni di una dinastia industriale nascano e vivano col pallino del business di famiglia. Spesso, il sistema familiare abbassa la qualità del management aziendale ed è quindi un costo. Un costo - di nuovo - del quale i soci devono essere consapevoli». Resta il fatto che, davanti alla malversazione o ai deliri di onnipotenza, non c’è informazione che tenga... Quali scenari immagina, per il futuro della corporate governance? «Molto più rosei, perché le cose stanno cambiando: la metà dei cittadini dei Paesi Ocse possiede titoli azionari. Adesso abbiamo solo bisogno di dare un senso a quella proprietà: gli investitori devono unirsi. Il congresso dell’International Corporate Governance Network, che si è tenuto di recente a Milano, dimostra che gli azionisti possono parlarsi nel comune interesse. E poi cominciare anche ad agire: proprio in questi giorni, gli azionisti di Ericsson stanno mettendo sotto pressione la famiglia Wallenberg, che controlla il gruppo svedese tramite il privilegio delle azioni di serie A...» E i Ceo? Fino a ieri, per giustificare la loro onnipotenza, avevano usato la scusa dello stock value, il valore delle azioni che cresceva a ritmo serrato: ma adesso? «è gente ingegnosa» conclude Mr. Monks ridendo. «Stia certo che s’inventeranno qualcos’altro». Marco Magrini