Dino Buzzati, dal ཿCorriere d’informazione del 5/12/1946, 5 dicembre 1946
Il delitto nella penna di Buzzati, Corriere della Sera, martedì 29 ottobre C’è qui il papà della morta»
Il delitto nella penna di Buzzati, Corriere della Sera, martedì 29 ottobre C’è qui il papà della morta». La voce girò all’improvviso nel desolato lungo corridoio del reparto Squadra Mobile che si faceva più desolato ancora per la sera sopraggiungente. «C’è il papà con un fratello, sono arrivati adesso da Catania». Infatti tra le molte ombre di uomini e di donne (a quella livida luce tutti si mutavano in ombre), stazionanti per incomprensibili ragioni all’imbocco del corridoio, quasi aspettando che qualcosa di misterioso succedesse, ce n’erano due immobili, mute e pazienti. Un vecchio di 82 anni, un uomo di 43: Carmelo e Giuseppe Pappalardo, precipitosamente saliti su per l’Italia a rivendicare una tragica investitura. Non schiumavano per desiderio di vendetta, non singhiozzavano, non facevano scene d’occasione: chiusi in una silenziosa dignità di dolore, in cui c’era come un’antica sapienza di ciò che è la vita e una dura pazienza nel saperla sopportare. Cosicché del loro arrivo ci si era accorti quasi per caso. Giuseppe Pappalardo, proprietario di una officina in via Messina 242 a Catania, è un uomo piuttosto basso, vigoroso, di espressione seria e concentrata; porta occhiali da miope. Nel 1943 era rimasto bloccato col cognato Ricciardi nel Nord e avevano per un pezzo lavorato assieme. «Un brav’uomo il Ricciardi» egli dice «peccato che si mettesse con certe zoccole! Anche a me piacciono le donne. Ma donne che siano donne, donne pulite». Poi il Pappalardo era sceso al Sud, cercando di riguadagnare la Sicilia, lasciando il cognato a Milano. Solo più tardi era venuto a sapere, attraverso chiacchiere di comuni amici, la relazione del Ricciardi con la Fort. E fin da principio aveva intuito che c’era qualche cosa di storto. Tempo fa nuove preoccupanti dicerie lo avevano raggiunto a Roma dove si trovava per affari: il Ricciardi aveva avuto rapporti di commercio con un parente della Fort (di chi si tratta? Non potrebbe essere per caso costui il famoso testimone del delitto vagamente descritto dalla Rina?) e ne erano nati litigi; pareva che la Fort parteggiasse per il congiunto e che durante una scenata avesse minacciato di ammazzare l’amante. In quel tempo la Pappalardo aveva già raggiunto il marito a Milano. Anche per questo il fratello stabilì il mese scorso di fare una corsa al Nord per vedere come andassero veramente le cose, deciso, se era il caso, a dire una parola energica. Un vago presentimento di cose fatali lo andava tormentando. E comprò il biglietto per Milano. Sopravvennero imprevisti impegni di lavoro, ci fu una causa civile a cui non poteva mancare. Il Pappalardo rimandò la partenza. Tanto, il biglietto era valido fino al 29 novembre. Dispose allora le sue cose in modo da arrivare qui proprio il 29. Ma il 29 novembre - nuove grane gli avevano impedito ancora di partire - lui non giunse a Milano. E alla sera la Fort, assetata di vendetta e di sangue, gli massacrava la sorella e i nipotini. «Se fossi arrivato il 29» egli adesso si tormenta con questo pensiero «forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Forse non sarebbe successo niente. Forse lo sproposito l’avrei fatto io, invece di quella là... come si fa a sapere? Chi improvvisa, improvvisa...». Come a dire che in un impeto d’ira l’uomo può perdere completamente se stesso. Ma lui a Milano il 29 novembre non c’era. La famiglia Pappalardo è formata da padre, madre, tre fratelli e una sorella. Domenica mattina, 1° dicembre, un amico si precipitò in casa dei vecchi con un giornale in mano. «Bedda Matri santissima! Avete visto cos’è successo?». Era la prima notizia. Hanno ammazzato la Franca e i suoi bambini! E chi è stato? Dopo il primo intontimento, una esasperata ansia di sapere. E poi poter almeno rivederla per l’ultima volta, la loro figliola! [...] Il giorno stesso, sul trenino che fa servizio fino allo Stretto, il vecchio padre e il figlio Giuseppe (il più indicato perché conosceva Milano) si misero in viaggio verso il Nord. Un viaggio d’inferno in questa stagione, con i treni zeppi e con quell’angoscia nel cuore. Soltanto ieri, mercoledì, arrivarono a Milano. Timidamente, con umiltà grandissima, come se si sentissero degli intrusi, comparvero nel tardo pomeriggio, ombre fra ombre, nell’umido crepuscolare androne dove si aprono le porte dei funzionari della Mobile. E sotto i baffi spioventi, in un siciliano senile e quasi incomprensibile, il vecchio andava sommessamente chiedendo intorno dove potesse rivedere la figliola assassinata. A un certo punto, non si sa come preavvertita, né da dove scaturita, una piccola folla in prevalenza di ragazze si formò all’ingresso del corridoio. In mezzo a questa piccola assemblea di scuri fantasmi, avanzò, circondata da agenti e funzionari, l’assassina. Nella penombra sarebbe potuta passare inosservata se voci di «eccola, è lei, quella strega» non si fossero levate intorno. Coi capelli ciondolanti ai lati del volto, stringendosi nel pastrano color cammello rossiccio, procedeva pesantemente. Solo un istante si intravide la faccia, tale e quale nelle fotografie; atona, plebea, stanca. Non con ira veemente, ma in un tono stranissimo di litania, come ritornello ripetuto ormai per impulso meccanico, echeggiarono le invettive delle donne: «Lurida! schifosa! assassina! maledetta!». Guardai il padre e il fratello della morta. Immobili presso lo stipite, assistevano senza il minimo trasalimento. A un certo momento tra loro e la ”belva” la distanza era meno di un metro. Intorno mani e teste si agitavano inquietamente. Loro no, immobili, come se una oscura forza li avesse fatti di pietra. Poi il piccolo corteo si perse in fondo al corridoio, il brusio si spense, l’androne ridivenne deserto. «Possiamo andare» disse il figlio al padre. Senza altre parole uscirono lentamente, soli nella immensa città che li ignorava. Dino Buzzati