Marco Guidi Il Messaggero, 09/07/2005, 9 luglio 2005
I ragazzini che a scuola un bel giorno dicono ”voi cristiani...”, Il Messaggero, sabato 9 luglio 2005 Arrivano a scuola e sono esattamente uguali ai loro compagni italiani, a parte il fatto che sono sempre di più»
I ragazzini che a scuola un bel giorno dicono ”voi cristiani...”, Il Messaggero, sabato 9 luglio 2005 Arrivano a scuola e sono esattamente uguali ai loro compagni italiani, a parte il fatto che sono sempre di più». Chi parla è Anna C.R., maestra da quasi trent’anni nell’hinterland bolognese. «Poi - prosegue - a un certo punto capita qualcosa. Le ragazzine un bel giorno arrivano a scuola con il velo sui capelli, segno che hanno avuto le prime mestruazioni e son diventate donne. E i ragazzini che prima scherzavano con le compagne come tutti gli altri, improvvisamente si mettono un poco in disparte e cominciano a parlarmi di ”voi cristiani e di noi musulmani”, del Corano e della loro diversità». Spesso, spiega la maestra, non è nemmeno una cosa che apprendano in famiglia, ma magari alla scuola coranica che frequentano nel pomeriggio, finite le lezioni della scuola italiana. E spesso la scoperta della diversità li allontana dai loro compagni italiani, dai loro amici, facendone un gruppo a parte o, dove non esiste il gruppo, degli isolati. L’integrazione che funzionava benissimo, a un certo punto si interrompe. E alle scuole medie sarà ancora più evidente che è successo qualcosa. Nascono cosi degli strani nuovi italiani, gente che coltiva spesso in modo aggressivo ma altrettanto spesso in modo quasi invisibile (e sono i casi più pericolosi) la differenziazione con gli altri, quelli che gli stanno intorno, ragazzi che della patria d’origine dei loro genitori sanno poco (qualche vacanza estiva) o nulla, ma che nella nuova patria si sentono in qualche modo ”noi”, rispetto agli altri che sono ”voi”. la seconda generazione degli islamici italiani quella che sta crescendo, una seconda generazione che spesso non si mescola con i ragazzi della sua età appena sbarcati da una carretta del mare. Non si mescola perché le famiglie hanno trovato un lavoro, una casa, una sistemazione e apparentemente hanno costituito un gruppo che si va lentamente ma sicuramente integrando. Capita così che il padre vada al bar a giocare a carte o a biliardo con i compagni di lavoro italiani mentre i figli seguono il percorso opposto. L’uno è arrivato da lontano, da un’altra cultura e a poco a poco l’ha integrata, la fa interagire con quella che ha trovato qui, l’altro dalla cultura impartitagli a scuola si va lentamente distaccando, cercando qualcos’altro. Cosa cerchi è facile capirlo. Nell’età del conflitto generazionale il padre gli può apparire una sorta di zio Tom che ha venduto l’anima al suo nuovo paese, oppure può essere l’uomo che, al contrario, mantiene il contatto con le vecchie abitudini e la patria d’origine. E soprattutto nella sua ricerca di identità l’immigrato di seconda e tra breve di terza generazione sente il bisogno di impadronirsi di qualcosa che gli manca, di ritornare a origini spesso mitiche e inesistenti. Quando poi, accanto a queste spinte, si aggiunge anche la pulsione religiosa, magari soddisfatta frequentando un imam spesso tanto rozzo quanto integralista, il gioco è fatto. D’altra parte l’integrazione per la prima generazione ha significato spesso soddisfare a bisogni primari: un lavoro, un tetto, degli abiti, un documento regolare. Immersi nella battaglia per sopravvivere i padri non si sono fatti tante domande, i figli invece hanno avuto il tempo per farsele. E allora eccoli ascoltare coloro che (e sono tanti anche da noi) sono stati a combattere in Bosnia contro i serbi e i croati e poi hanno fatto ritorno in Italia. E mitizzare una identità forte che si sostanzia spesso con il jihad. Il jihad non dell’islam moderato, cioè la lotta contro se stessi e le proprie pulsioni negative, ma invece quello contro gli infedeli. Nascono così cellule spontanee che si rifanno all’ideologia di Al Qaeda, al cosiddetto qaedismo, anche se non hanno nessun contatto con gli emissari di Bin Laden. Contatti che possono al massimo essere presi con qualche nordafricano appartenente a gruppi salafiti marocchini o tunisini, o al Gia algerino. Questa è gente che subisce poi una seconda divisione. Potremmo, parafrasando Primo Levi, parlare di sommersi e di salvati. I salvati sono coloro che, a un certo punto, si fermano e rientrano in qualche modo nella loro nuova società di appartenenza, trovano un lavoro, si sposano (spesso anche con un matrimonio misto che dà molti problemi ma anche molti stimoli) e cominciano in qualche modo a considerarsi italiani, francesi, inglesi... I sommersi invece proseguono nella loro deriva e si dividono a loro volta in due categorie: o diventano dei barbuti intolleranti, spesso portati a delinquere (se lo si fa in nome dell’islam e della causa non è peccato, è solo taqiya, ”dissimulazione”) o, peggio, eccoli apparentemente integrati, sbarbati, vestiti come bravi impiegati, pronti però a entrare in azione quando e come il loro sceicco, il loro imam, il loro capo glielo ordinerà. Questi sono i più pericolosi, i portatori del qaedismo diffuso, coloro che possono portare la morte ovunque e, purtroppo, senza molta fatica Marco Guidi