Il Sole 24 ore 22/01/2006, pag.29 Salvatore Settis, 22 gennaio 2006
Chi si rivede! Laocoonte. Il Sole 24 Ore 22 gennaio 2006. Per secoli s’era svuotata, la metropoli multiculturale che aveva creato dal nulla un impero e lo aveva amministrato, fra vaste imprese pubbliche e corruzione dei costumi, fra governo delle aristocrazie e dispotismo dei principi
Chi si rivede! Laocoonte. Il Sole 24 Ore 22 gennaio 2006. Per secoli s’era svuotata, la metropoli multiculturale che aveva creato dal nulla un impero e lo aveva amministrato, fra vaste imprese pubbliche e corruzione dei costumi, fra governo delle aristocrazie e dispotismo dei principi. Per secoli entro l’ampia cerchia delle mura, quelle che Aureliano costruì contro i barbari e che resistono tuttora, la popolazione diminuiva ogni giorno, s’impaludava il Foro fino a ieri scintillante di marmi, crollavano i templi degli dèi sconfitti, perivano non solo le case ma il palazzo imperiale sul Palatino, gli affreschi si disfacevano alla pioggia e al vento, le statue di bronzo (anche quelle dei maestri della Grecia classica, portate a Roma come bottino) venivano fuse senza pietà per farne monete, armi, utensili. Eppure, mentre l’orgogliosa capitale del mondo, che aveva contato più di un milione di anime, si riduceva a poche migliaia di abitanti annidati fra le rovine, e solo la presenza del papa serbava un’ombra della sua vocazione universale, viveva ancora fra i ruderi il popolo foltissimo delle statue. Per mille anni e più esse giacquero dimenticate nelle rovine, anche se qualche volta capitelli e colonne furono riusati nelle basiliche cristiane, sarcofagi con scene dal mito e dalla vita degli Antichi riciclati come sepolcro di papi e cardinali. Svettavano intatte le colonne di Traiano e Marco Aurelio, col loro fregio a spirale che raccontava (e racconta) le imprese di quegli imperatori in Dacia e in Germania, ma nessuno sapeva più che cosa fossero: la colonna Traiana (usata come campanile di una chiesa di san Nicola) viene detta Troiana da alcune fonti medievali. Solo dai primi del Quattrocento, dopo il ritorno dei papi da Avignone, i "Romani naturali", per rivendicare la loro discendenza dagli antichi, presero a raccattare fra i ruderi statue, rilievi ed epigrafi, dando origine a quello che oggi chiamiamo "collezionismo", e dunque anche ai musei. Nel 1506 la scoperta di statue antiche era a Roma cronaca quotidiana. Eppure, il 14 gennaio di quell’anno, quando dalle vigne di Felice de Fredis emerse il Laocoonte, la scoperta fece sensazione, divenne in poche ore the talk of the town, fu registrata in decine di epigrammi, lettere private, rapporti di ambasciatori, disegni, stampe e dipinti. Perché? Da un lato, molti avevano letto nell’Eneide la storia del sacerdote troiano che invano mise in guardia i suoi concittadini dal Cavallo di Troia, e fu aggredito coi figli da due serpenti; qualche manoscritto illustrato (fra cui il celebre Virgilio Vaticano, circa 400 d.C.) mostrava la scena, e Filippino Lippi aveva cominciato a dipingerla in un affresco della villa medicea di Poggio a Caiano (1493), di cui si conoscono due disegni preparatori. Ma la ragione della fama del Laocoonte fu un’altra: qualcuno (stando a Francesco da Sangallo, suo padre Giuliano) subito lo identificò con la statua menzionata da Plinio, che per di più la collocava in domo Titi imperatoris: "Io era di pochi anni la prima volta ch’io fui a Roma, che fu detto al papa, che in una vigna presso a S. Maria Maggiore s’era trovato certe statue molto belle. Il papa comandò a un palafreniere: "Va, e di’ a Giuliano da Sangallo, che subito li vada a vedere". E così subito s’andò. E perché Michelangelo Buonarroti si trovava continuamente in casa (...), (mio padre) volle che ancor lui andasse; ed io così in groppa a mio padre, e andammo. Scesi dove erano le statue, subito mio padre disse: "Quello è Laocoonte, di cui fa menzione Plinio"". Dato che il racconto è del 1567, è lecito dubitare di questa storia, e della cultura filologica che Francesco da Sangallo attribuisce al padre. Tuttavia, se non Giuliano, qualcuno fu comunque in grado di fare subito l’identificazione giusta, come risulta dalle due più antiche testimonianze. La prima è una lettera di Filippo Casavecchia a Francesco Vettori (gennaio 1506): "Mercholedìa dì 14 del presente, fu trovato in questa città una mirabile statua di marmo, la quale mostra anni 60, in mezo di due figliuoli di anni 12, li quali sono morti da due serpe (...), e tutta Roma giudicha queste esser le più mirabile statue che mai sieno trovate per alchuno tempo. Dicono questi uomini litterati questo esser Laocon Trojano sacierdote, il quale ne fa mentione Prinio e Virgilio". La seconda lettera fu scritta il 24 gennaio 1506 da Bonsignore Bonsignori a Bernardo Michelozzi: "A questi giorni uno romano (...) ha trovata una scultura antica bellissima di marmo, chosa più nobile che avessino li romani di quelli tempi e di che fane menzione Vergilio e Plinio, cio(è) uno Laocoonta con li figli e con li serpenti tutto chome pone Vergilio (...) Tutta tal chosa è sculta in questo marmo, e se bene ho a mente, Plinio dice tal chosa essere nella casa di Severo o vero d’Antonino Pio (...) certamente è chosa mirabile a vederla e tutte le figure paiono vive". Come sempre, il piacere del conoscitore è &la game of recognition" (Susan Sontag). Riconoscere all’istante una statua che evocava il poema di Virgilio, e sapere da subito che essa era in casa di un imperatore (anche se Bonsignori non ricorda bene quale), e dunque meritava di raggiungere le collezioni del papa. Basta questo a farci intendere la subitanea fama del Laocoonte? Forse no. Il passo di Plinio è pieno di elogi, ma è l’unico testo antico che menzioni non solo la statua, ma i suoi tre autori: "... il Laocoonte che è nella casa di Tito imperatore, opera da giudicarsi al di sopra d’ogni altra, della pittura come della statuaria. Lo scolpirono in un sol blocco di marmo, coi figli e i mirabili viluppi dei serpenti, lavorando insieme di comune intesa, i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Rodii". Non ne esistono, nell’arte antica, né copie né derivazioni né echi: più correnti furono altre iconografie del tema, rappresentate da due affreschi pompeiani, dalla miniatura del Virgilio Vaticano e da alcune medaglie tardoantiche ("contorniati"). La vera fama del Laocoonte non è antica, ma nasce dalla sua riscoperta nel 1506. In nessun caso come in questo vediamo all’opera i complessi meccanismi culturali che siamo soliti descrivere (o liquidare) col nome sbrigativo di "Rinascimento". Rinascita, s’intende, dell’antichità frammentata, obliata, rimossa: ma non si danno resurrezioni, nel paesaggio culturale, se non rispondono a vive esigenze del presente. Secondo Aby Warburg, "il gruppo dei dolori di Laocoonte il Rinascimento, se non lo avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica". Esso non fu "una delle "cause" dello stile barocco romano del grande gesto (...), ma solo il "sintomo" esterno di un processo storico-stilistico che trova in se stesso la propria logica". Warburg era convinto che una prima scoperta del Laocoonte fosse avvenuta già nel 1488, senza conseguenze per l’arte: quello che non era ancora attuale nel 1488, lo fu nel 1506. Sappiamo ora che la lettera del 1488 di Luigi Lotti a Lorenzo il Magnifico racconta la scoperta di una scultura diversa dal Laocoonte, eppure ancora ci affascina la serrata sequenza proposta da Warburg. Essa delinea quello che potremmo chiamare lo "stile delle scoperte archeologiche", e dietro la loro apparente casualità cerca di scoprire quanto e quando esse cadano in un terreno fertile, rispondano a esigenze dell’oggi. Michelangelo che accorre fra i primi ad ammirare il Laocoonte rinato appare il più degno spettatore del l’evento. Perciò il Laocoonte ci sorprende ancora, perciò vale la pena di prendere ancora una volta la strada dei Musei Vaticani, anche solo per riguardarlo un istante. Perciò si affannarono gli artisti a ricostruire le parti mancanti, e in particolare il braccio destro di Laocoonte, finché nel 1906, quattrocento anni dopo la scoperta, esso riemerse misteriosamente nella bottega di uno scalpellino romano (fu ricollocato sulla statua nel 1959). Perciò gli archeologi ancora disputano se il Laocoonte sia proprio quello di cui parla Plinio, e si chiedono se sia davvero un originale dei maestri di Rodi, o una copia da un originale bronzeo più antico (è questa la tesi sostenuta da Bernard Andreae). L’insaziabile desiderio di ritrovare i capolavori perduti dell’antichità ha come contropartita la difficoltà di riconoscerli per buoni una volta che essi riemergono dalle tenebre. E quando nel 1957 emersero a Sperlonga impressionanti frammenti di sculture, con la firma proprio di quei tre scultori rodii, non mancò chi cercasse fra esse i resti del "vero" Laocoonte. Sbagliavano: la Scilla di Sperlonga e il Laocoonte vaticano sono originali dei tre maestri rodii, prodotti in Italia verso il 40-20 a.C., che ebbero scarsa fortuna nell’antichità. Ma la scoperta del 1957 non ha avuto conseguenze per gli artisti contemporanei, quella del 1506 ne ha avuto per cinque secoli e ne ha ancora (ho contato non meno di quaranta Laocoonti di artisti contemporanei dal 1995 a oggi). Forse aveva ragione Warburg, forse anche le scoperte archeologiche hanno un loro "stile". Salvatore Settis