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 2005  ottobre 16 Domenica calendario

Lo spot che vinse controvento, La Repubblica, 16 ottobre 2005 In principio erano solo biscotti. Ma se si azzecca l’ idea, se questa idea viene lavorata, se il prodotto, cioè il biscotto e derivati, si integra perfettamente con la sua immagine, e se l’ immagine genera un sentimento, e il sentimento diventa uno spot, o perfino un film, e se tutto questo, compreso il "packaging", compreso il "coccio" di terracotta, compresa la famiglia felice, compreso il mulino restaurato ad hoc in Toscana, insomma compreso tutto, diventa un mito, anzi «un moderno mito collettivo», come dicono i pubblicitari, be’ , allora non si tratta più di biscotti, tarallucci, macine, galletti e via sgranocchiando la mattina a colazione: siamo piuttosto nei pressi dell’ «invenzione della tradizione» di cui ha parlato Eric Hobsbawm, lo storico del Secolo breve

Lo spot che vinse controvento, La Repubblica, 16 ottobre 2005 In principio erano solo biscotti. Ma se si azzecca l’ idea, se questa idea viene lavorata, se il prodotto, cioè il biscotto e derivati, si integra perfettamente con la sua immagine, e se l’ immagine genera un sentimento, e il sentimento diventa uno spot, o perfino un film, e se tutto questo, compreso il "packaging", compreso il "coccio" di terracotta, compresa la famiglia felice, compreso il mulino restaurato ad hoc in Toscana, insomma compreso tutto, diventa un mito, anzi «un moderno mito collettivo», come dicono i pubblicitari, be’ , allora non si tratta più di biscotti, tarallucci, macine, galletti e via sgranocchiando la mattina a colazione: siamo piuttosto nei pressi dell’ «invenzione della tradizione» di cui ha parlato Eric Hobsbawm, lo storico del Secolo breve. Qualcuno ha inventato il kilt e una Scozia archetipica, qualcun altro ha inventato il mondo a parte della natura incontaminata, dove le famiglie erano buone, la vita era sana, e i mulini erano bianchi. Per l’ appunto. @_TITOLETTO nero sx:Desideri subliminali Era il 1975 quando Gianni Maestri avviò la regia culturale e pratica del progetto che si sarebbe realizzato nell’ immagine del Mulino Bianco. In quella metà degli anni Settanta il clima non era rassicurante: inflazione elevata, scontro sociale acuto, «anni di piombo» nella percezione di tutti. Eppure, a ripensarci oggi, erano anche gli anni in cui un ricognitore appassionato e spesso in controtendenza come Giuseppe De Rita vedeva una straordinaria creatività sociale: la spinta dell’ impresa famigliare, il modellarsi di quel tessuto che un economista curioso e non dogmatico come Giorgio Fuà (l’ autore a metà degli anni Settanta di un libro seminale, Occupazione e capacità produttive) avrebbe più tardi denominato «industrializzazione senza fratture»: cioè l’ industria dietro la siepe, il territorio come culla delle competenze, l’ ambiente artigiano come fonte di una crescita economica spesso non censita dalle fonti ufficiali. Certo, per costruire un mito, ci vuole il realismo freddo di chi intuisce i desideri anche subliminali della platea dei consumatori, e su questa struttura percettiva allestisce un repertorio di prodotti: «sei piccoli biscotti», scrisse lo stesso Maestri, «a cui seguirono sei pani e poi sei merende, sei torte». Una successione scandita, quasi un andamento ritmico da favola, ma di una favola che misurava di continuo l’ effetto sul pubblico attraverso le indagini "di profondità", e addirittura cercava di tarare l’ affettività della clientela verso quei prodotti nuovi iscritti nella stessa cornice visiva e simbolica, «il muro giallo che era davanti agli occhi di chi entrava nel supermercato, che sarebbe divenuto presto familiare a tutti». Non è necessaria neanche una sociologia rudimentale per descrivere l’ Italia degli anni Settanta: reduce dallo shock petrolifero che aveva indotto la soluzione retorica delle domeniche a piedi, imbrigliata dal blocco dei prezzi sui generi alimentari di base (gli americani che avevano acquisito la Barilla rimasero traumatizzati da misure antimercato di questo tipo); e poi, schiacciata dall’ asprezza micidiale dell’ avventura terroristica, permeata da un conflitto ancora intriso di fattori classisti, ma soprattutto condizionata da alcuni grandi ideologismi che si riassumevano nella concezione che la caduta tendenziale del saggio di profitto stava avendo la meglio sul capitalismo, che Marx aveva liquidato Braudel, il proletariato moderno avrebbe scalzato la borghesia, e che insomma il modello di sviluppo stava giungendo al capolinea, le risorse si stavano esaurendo e il futuro si profilava buio tenebra. Ci voleva un’ intuizione di eccezionale capacità analitica per comprendere che in quell’ Italia lì, in quella società apparentemente disintegrata, permanevano nella psicologia condivisa sentimenti non riconosciuti né dalla politica né dall’ economia. Cioè sopravviveva almeno negli strati profondi della mentalità diffusa una specie di utopia rivolta all’ indietro, che si sarebbe fatta suggestionare dalle «buone cose di una volta». In parte "albero degli zoccoli", ma in parte anche desiderio implicito di pacificazione e di serenità: una vita «fresca di Mulino», disegnata con le spighe e i fiori, con tonalità da primo Novecento, volutamente ricalcata sulle oleografie. Una visione regressiva? Evidentemente la pubblicità non ha pregiudizi culturali, è onnivora esattamente come i consumatori. Il Mulino Bianco rappresentava infatti il quadretto a colori pastello di un’ età incontaminata e di una natura piacevole, e presentava alcuni suoi prodotti nelle nuove/vecchie confezioni in sacchetto, memoria tattile dei buoni prodotti di una volta. Ciò significava che si era creata nella produzione industriale e nel mercato una nicchia, che sarebbe diventata uno spaccato sociale, in cui il pubblico intravedeva la genuinità, rispetto al prodotto massificato delle aziende alimentari, i cui ingredienti erano invece anonimi e manipolati dal processo industriale. Questo atteggiamento intercettava allora anche un’ altra dimensione del gusto, un’ altra tendenza alimentare: il «mangia sano, torna alla natura», l’ idea che quando sono caduti tutti i miti l’ uomo è davvero ciò che mangia. La fitness gastronomica incrocia in modo irresistibile la wellness della vita salubre. Il Mulino Bianco sintetizzava in un’ immagine-simbolo il non troppo inconscio desiderio bucolico, o arcadico, degli abitanti delle metropoli nevrotizzate dallo scontro di classe e dalla crisi dell’ industria nazionale. Alludeva al consumo e non al consumismo, alla piccola patria della natura, alla valle felice quando «qui era tutta campagna» e c’ erano ancora le stagioni. E soprattutto, quando c’ era ancora la memoria. In effetti, per un paese che aveva conosciuto la motorizzazione convulsa, l’ Autosole, Carosello, e sullo sfondo dell’ industrializzazione le grandi migrazioni interne, la raffigurazione del vecchio mulino costituiva non tanto un’ immagine empirica quanto un luogo della memoria. Le prove degli annunci pubblicitari si spingevano a spiegare quel mondo ormai perduto e che il Mulino Bianco recuperava miracolosamente dalle pieghe del ricordo: «Quanti di noi ricordano il sapore del latte appena munto?». Quasi nessuno, ovviamente: ma l’ immagine della mucca e della ragazza, mentre una gallina becchetta lì attorno, toccavano strati di sentimento che fino allora erano rimasti inerti. Slogan che erano non-slogan, lunghissimi, che evocavano il grano, il burro, il latte, il miele. Testi in corpo più piccolo che descrivevano minuziosamente il piacere di una colazione possibile. E sopra tutto, l’ icona del Mulino: «Quando i Mulini erano bianchi». Negli spot di Giuseppe Fina, un regista di cinema e televisione, ecco le scene di vita rurale, con i contadini (quasi sempre) veri, i lavori nei campi, un manierismo documentario in cui la natura era l’ acme dell’ artificio. Per i pubblicitari, il Mulino Bianco significava «valori forti, prodotti buoni, coinvolgimento emotivo, una presenza amica», addirittura «un riferimento di comportamenti etici». Per il pubblico era un serial, una soap opera in cui la narrazione si sviluppava cambiando via via tonalità. Quando "il bel tempo andato" non funziona più, viene fuori l’ idea una modernità ambientalista, il desiderio di una vita buona fuori dallo stress quotidiano e immersa nella natura. @_TITOLETTO nero sx:Atmosfere rarefatte Accanto al Mulino Bianco, visto che a causa di una malattia non fu possibile ricorrere all’ arte di Ella Fitzgerald, ci può essere la ragazza contadina con la chitarra, una boccoluta folksinger rurale, che canta i versi di Bruno Lauzi: «Hai mai visto il grano? / è come un mare biondo / che si muove / e fino nel profondo ti commuove~». Oppure lo sfondo delle musiche di Ennio Morricone, «una vera e propria melodia, sinuosa e articolata nel suo arco di otto battute», che accompagna le avventure minimali e benigne della Famiglia del Mulino. Atmosfere rarefatte, in una "saga" che agli esordi ha interiorizzato Ermanno Olmi e lo traduce in una versione flou, virata nella maniera, e poi, dopo lo stereotipo del ricordo, conia la matrice narrativa del ritorno. Forse l’ unica cosa vera, reale, oggettiva di questa visione è proprio il Mulino di Chiusdino (Siena), restaurato e dipinto di bianco, in cui può rifugiarsi la famiglia che lascia la città e si ritrae nei colori della memoria, filmata da Giuseppe Tornatore. A due passi c’ è l’ abbazia di San Galgano, ignorata da tutti e fatiscente: i turisti in gita domenicale accorrono a fotografare il Mulino, un reperto ad un tempo vero e falso, esaltato dalla potenza della televisione, assaporato insieme alla fragranza dei prodotti della Barilla. Probabilmente ignare di gustare madeleine molto più popolari di quelle proustiane, le folle che ammirano il Mulino ignorano anche che stanno consumando un prodotto insieme reale e immaginario, una specie di corpo o articolo mistico fabbricato secondo procedure industriali, con il lavoro di gruppo, con i test sulla clientela, nel tentativo, evidentemente riuscito di suggerire ciò che il consumatore vuole, crede di volere, crede di credere. Edmondo Berselli