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 2004  ottobre 23 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 20 FEBBRAIO 2006

«L’altra sera al reality ”La fattoria”, un tipo in studio si è alzato e ha fatto una piazzata per protestare contro l’esclusione dal gioco della moglie (Angela Cavagna, o chi per essa). E per protestare meglio, si è messo a urlare alla conduttrice che era tutto uno scandalo e che lei e gli autori erano come la Juventus e Moggi. Non c’è che dire, quando si ha un’immagine, si ha un’immagine» (Antonio Dipollina). [1]

Luciano Moggi è nato il 10 luglio 1937. A Monticiano, l’ultimo comune della provincia di Siena prima di Grosseto. Paolo Forcolin: «Qui, i Moggi hanno solide radici. I più anziani si ricordano della mitica nonna Celeste che si dava un gran daffare per procurare licenze e rinvii per le reclute d’allora, in partenza per l’Africa. Damiano, il papà di Luciano, ”lavorava il bosco”, come si dice qui. Funghi, legna, castagne, un po’ di selvaggina. Erano anni difficili, a cavallo tra le due guerre. Damiano e la moglie Onelia stavano in via Cairoli, casa antica, oggi accuratamente restaurata. Di fronte, le stalle per i cavalli (oggi garage, il tempo passa...)». [2]

Al civico 13 (ne dubitava qualcuno?) nasce Luciano. Forcolin: «Elementari a Monticiano, medie a Siena, ospite di parenti. Poi, a 14 anni, il ritorno al borgo. Papà Damiano gli trasmette due cose principali, tra le tante: la passione per i cavalli e quella per la bicicletta. Bartaliano di ferro, Damiano. E il figlio, pure. Il giovane Luciano non è quello che si dice un ragazzo frenetico, tutt’altro. La famiglia non è ricca ma discretamente agiata sì. Al punto che Damiano si leva la soddisfazione di costruire la prima villetta del dopoguerra a Monticiano. Lavorano tutti, perché la vita è dura. Tutti ma non Luciano. Il borgo gli va stretto, ha bisogno d’altro. Papà Damiano è intelligente, respinge le critiche perché il suo figliolo non va nel bosco, né caccia, né raccoglie legna: ”Meglio che lavori un’ora in più io. La strada di Luciano è un’altra”». [2]

Gli piaceva vestir bene, con la giacchetta, le scarpe nuove. E gli occhiali. Una sua mania, da sempre. Il cugino Marcello Barazzuoli: «Si aspettava l’uscita di ”Calcio e ciclismo illustrato”, come se fosse la manna. E che ’vole? Mica c’era la tv: si sognava davanti alle fotografie. E quando c’erano le tappe al Giro, tutti in piazza fuori dal bar. Un altoparlante collegato alla radio ci raccontava la corsa, in un silenzio religioso. Si andava in giro in bicicletta. Aveva una Bianchi originale, come quella di Coppi. Su e giù per salite a macinar chilometri. Sapeva tutto di bici, una memoria straordinaria, nomi, piazzamenti, date. C’era chi voleva iscriverlo a Lascia o Raddoppia, storia del ciclismo: per mesi studiò su libri e almanacchi, poi non se ne fece nulla. Calcio? Sì, certo. Con i giallorossi del paese e i bianconeri del Siena, poi. Si faceva voler bene da tutti: una volta, riuscì a farsi prestare un vespino dalla sede della DC di Siena per fare volantinaggio. No, non gli importava ’un bischero della DC, ma gli piaceva il vespino...». [2]

Poi conobbe Giovanna. Barazzuoli: «Un giorno mi dice: ”Marcello mi sono fidanzato ufficialmente. una di fuori, la Giovanna...”. La conoscevo, la Giovanna, una ragazza straordinaria, il vero segreto del successo di Luciano. Ma di fuori era un po’ esagerato. D’accordo che è in provincia di Grosseto ma Roccastrada è a 15 km, ci si passava spesso in bici... Da quel momento è cambiato. Si è fatto assumere alle Ferrovie, a Roma. Si è sposato». [2] Erano gli anni Sessanta. Il concorso vinto alle Ferrovie era per ”assistente di stazione”. La destinazione era Roma, lui fece richiesta di trasferimento a Civitavecchia perché lì la vita costava meno. [3]

Nel gergo burocratico delle vecchie ferrovie l’’assistente di stazione” era, più o meno, un garzone. Sebastiano Vernazza: «Manovalanza spicciola, anche se tra le incombenze del giovane ferroviere Moggi era previsto il telegrafo. All’epoca non c’erano i computer come oggi e i capistazione si scambiavano le informazioni sui treni attraverso i telegrafisti, in organico a ogni scalo». Renato Cervellin, per tanti anni collega di lavoro di Moggi: «Ci insegnarono l’alfabeto Morse, anche se non serviva più, perché nel ’62 il telegrafo funzionava già diversamente». La mansione era delicata: «Certo, un errore del telegrafista metteva a repentaglio la sicurezza dei convogli. Bisognava stare attenti, recepire perfettamente gli ordini del capostazione». [4]

Moggi e Cervellin erano ragazzi in gamba e i panni del garzone stavano loro stretti. Tentarono il gran passo: concorso interno per capi-gestione. E lo vinsero. In ferrovia quella del capo-gestione è una figura subordinata al capostazione titolare, il dominus assoluto di binari e traversine. Il capo-gestione si occupa della biglietteria e delle merci in arrivo e in partenza. Insomma, Moggi diventò il bigliettaio della stazione di Civitavecchia. Cervellin: «Luciano sapeva lavorare. In tanti anni di biglietteria non ebbe mai screzi con viaggiatori. Era un tipo con la battuta pronta, come si vede in tv oggi. Gli bastava un sorriso per risolvere i casi più spinosi». A fine annata le pagelle: «Il capostazione titolare valutava ogni dipendente. Le voci erano quattro: capacità professionale; attitudine al servizio; disponibilità verso il pubblico; salute». Moggi eccelleva, ovvio: «Non ebbe mai giudizi negativi». [4]

E il mito del ”Paletta”? Vernazza: «Leggenda vuole che un giorno Lucianone, a causa di un malore del capostazione di turno, si sia impossessato di berretto e fischietto e abbia dato il via libera a un treno. Esercizio abusivo di una funzione suprema. Nel calcio ci può stare, in ferrovia è roba da codice penale». Cervellin: «Mai successa una cosa del genere, perché era impossibile che un capo-gestione assumesse le funzioni di capostazione». Pena il licenziamento e quant’altro. «Chi ha messo in giro questa storia non ha idea delle procedure ferroviarie. Non scherziamo: per fermare o far partire un treno ci vogliono poteri che un capo-gestione non ha». [4]

Intanto, Moggi viaggiava su e giù per l’Italia a caccia di talenti. Cervellin: «Luciano aveva la passione del calcio e copriva volentieri i turni notturni per essere libero di giorno e andare in giro per campi da gioco». Vernazza: «Una vitaccia: il giovane Luciano dormiva pochissimo. Notti in bianco e lunghe giornate su campetti di periferia nelle vesti di osservatore della Juve di Allodi prima e di Boniperti poi. Lo stipendio da ferroviere non era granché, per quanto ci fosse l’agevolazione dei biglietti gratuiti per i dipendenti: 2.000, 4.000 o 6.000 km l’anno a seconda dell’anzianità di servizio. I ferrovieri normali sfruttavano il benefit per le vacanze o per andare a trovare i parenti, Moggi bruciava il bonus in scorribande calcistiche. Chissà se Franco Causio e Gaetano Scirea, due celebri scoperte del Moggi- ferroviere, sarebbero diventati campioni del mondo se le FS non avessero omaggiato i propri lavoratori con tratte gratis...». [4]

Alla fine degli anni Settanta, l’addio ai binari. Vernazza: «Colse al volo l’occasione del pensionamento precoce, una delle tante follie dell’Italia di quegli anni. Poco più che quarantenne Moggi diventò baby-pensionato delle Ferrovie. Il fu Paletta cominciava così l’irresistibile ascesa alle vette del calcio». [4] Oggi si dice che Moggi è l’uomo più potente del calcio italiano. Direttore generale della Juventus, forma con Bettega e Giraudo la famigerata Triade che dal 1994 ha portato a Torino sei scudetti (quasi sette), una Champions League (perdendo tre finali), una coppa Intercontinentale, una supercoppa Europea, quattro Supercoppe italiane. Giancarlo Dotto: «C’era feeling con Umberto, molto meno con Giovanni Agnelli, che mal sopportava l’ex ferroviere dai modi grevi e smise di sopportarlo del tutto il giorno in cui annunciò la cessione di Bobo Vieri all’Atletico Madrid, dopo avergli garantito una settimana prima la sua incedibilità». [5] Comunque siano andate le cose, l’Avvocato ne riconosceva l’importanza: «Lo stalliere del re deve conoscere anche i ladri di cavalli» disse una volta che lo rimproveravano per aver ingaggiato un collaboratore così discusso. [3]

Prima dote di Moggi: saper mentire anche a se stesso. Seconda dote: la flessibilità. Dotto: «Lui e Capello si erano abbaiati contro di tutto, accuse e sospetti di slealtà sportiva, per questo deferiti alla commissione disciplinare. Moggi che si lamentava degli arbitri, l’altro, allora tecnico romanista, che replicava: ”Da quale pulpito! Ci vuole coraggio... ”. Eppure, in meno di 24 ore Capello sbaracca la casa romana e scappa in direzione Torino, nelle braccia di Luciano. Il trasloco più veloce della storia». [5]

Già a Napoli, Moggi aveva fatto in tempo a vincere il secondo scudetto di Maradona & C. e la Coppa Uefa. «In un futuro lontano mi piacerebbe tornare nella mia Napoli. La città dove vivo. Una città che amo. Vuole sapere quanto è forte il mio legame con Napoli? Una volta mi avevano rubato il motorino. La mattina dopo lo ritrovai davanti alla porta di casa. Il ladro aveva letto il mio nome sul libretto di circolazione e me lo aveva riconsegnato subito». [6]

Moggi ha una parlata cantilenante (vocali allungate e nasali) che fa la felicità degli imitatori. Crosetti. «Pare uscito da un telefilm, da una commedia all’italiana, da qualche vecchia pellicola dei Pierini (Bombolo, Alvaro Vitali, Cannavale), dove la macchietta era sempre esagerata. Ma forse Lucianone, come viene chiamato per sottolineare l’ampiezza del suo potere e l’alone casereccio del personaggio, non sarebbe dispiaciuto neppure a Fellini. Di sicuro avrebbe fatto un figurone accanto a Gassman e Totò, nei Soliti ignoti». [3]

Ha detto: «Il calcio è uno sport la domenica e un’industria in tutti gli altri giorni»; «Mi hanno dipinto come il diavolo e io lascio fare, lascio credere che esista. Perché c’è un sacco di gente che ha paura del diavolo, e questo può far comodo»; [3] «Il potere a volte bisognerebbe usarlo. Ma io non lo uso. Mi basta aver convinto gli altri della mia potenza»; «Tutti coloro che volevano farmi del male non sono andati molto avanti»; [6] «Se hai di fronte uno con le mitragliatrici, tu devi avere i cannoni». [7]

Hanno detto di lui: «Se nelle nostre giovanili nasce un campioncino, noi sappiamo che Moggi o chi per lui ci ha già messo le mani sopra» (Aldo Grasso). [7] «Moggi è il re del mercato, ha una rete di conoscenze talmente ampia che non c’è mamma incinta il cui figlio nascituro non sia stato già opzionato» (Franco Baldini, ex direttore sportivo della Roma). [8]

Come tanti, Moggi è un devoto di Padre Pio: «Fino a vent’anni fa non sapevo neppure chi fosse Padre Pio. Poi mi sono capitate delle avventure che mi hanno portato a pensare a lui. Non sono un bigotto, credo che ci sia qualcosa sopra di noi. Nella mia vita sono passato attraverso mille battaglie. Potevo finire massacrato, invece eccomi qui. In prima fila. Mi hanno salvato la religione e il lavoro». [6]

L’amicizia è tutto per Moggi. Dotto: «L’inseparabile Graziano Galletti, la sua mascotte personale, ex improbabile ciclista, oggi un soave batuffolo di un quintale e passa, che lo segue da trent’anni come un’ombra, sempre seduto in fondo al charter in tutte le trasferte, perché senza di lui la Juve non parte. Nello De Nicola, ex capotifoso della Roma che andava a Trigoria solo per insultarlo, finché un giorno Luciano lo prende da parte e gli parla diritto al cuore. Oggi Nello è responsabile del settore giovanile della Juve. Amici per la pelle Franco Ceravolo, capo degli osservatori, con cui ha condiviso gli anni delle turbolenze giudiziarie al Torino, e Luciano Perinetti, amore a prima vista alla Roma, che si porta dietro o sistema nelle squadre amiche dal 1976». [5]

Il migliore amico di Luciano Moggi è però suo figlio Alessandro. Dotto: «Cuore di papà lo ha sistemato a sua immagine e somiglianza e ora fa il procuratore di successo alla Gea, dove il figlio di Moggi lavora a fianco del figlio di Lippi e della figlia di Cesare Geronzi». [5] Alessandro è nato a Civitavecchia il 30 novembre 1972. Ha giocato nel settore giovanile di Napoli e Torino, prima come ala destra, poi come terzino. Nel 1994 ha fondato con Zavaglia la Football Management poi confluita nella Gea. «Mi mancavano 8 esami alla laurea quando iniziai questa splendida avventura» [9] Gianfranco Teotino: «Dice: il calcio italiano è nelle mani di Moggi. Non si muove foglia che Moggi Luciano non voglia. [...] Poi vai a vedere bene e scopri che il calcio italiano è sì sempre più nelle mani di Moggi, ma di Alessandro, più ancora che di Luciano». [10]

Ha confidato Moggi jr.: «Sono affezionato alla storia di Fabio Liverani. Lui a Viterbo in C1, paradossalmente, stentava ad imporre le sue doti tecniche. Il Perugia lo prese per l’Intertoto, ebbe coraggio e fu un crack. Così il suo passaggio, lui romanista, alla Lazio fu una soddisfazione per tutti. E, poi, addirittura arrivò anche la chiamata in azzurro». [9] Quel trasferimento adesso gli sta creando problemi. Dalla sua latitanza a Santo Domingo l’ex patron del Perugia Luciano Gaucci ha raccontato che l’affare Liverani lo fece «con la pistola puntata alla tempia»: «La Gea pretese il 15% sulla compravendita, la Lazio non lo voleva e il prezzo fu fatto lievitare da Capitalia da 20 a 25 miliardi». Moggi jr., che di questa faccenda non parla, s’è messo nelle mani Giulia Bongiorno, l’avvocato che ha fatto assolvere Giulio Andreotti dalle accuse di mafia e limitato i danni di Totti dopo lo sputo rifilato a Poulsen agli Europei 2004. [11]

«Ultima rivelazione sul caso Tenco. Nell’edizione del festival di Sanremo del 1967 non andò in finale perché non era della Gea» (Gene Gnocchi). [12]