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 2006  gennaio 12 Giovedì calendario

Milena Gabanelli. Faccio adesso quello che non ho fatto nel ’68. Corriere della Sera Magazine 12 gennaio 2006

Milena Gabanelli. Faccio adesso quello che non ho fatto nel ’68. Corriere della Sera Magazine 12 gennaio 2006. Se accendi la televisione e Milena Gabanelli sta parlando di te, è difficile che tu stia facendo una bella figura. Da nove anni, con la trasmissione Report, lei naviga nelle acque torbide del Paese cercando di smascherare magagne, strapoteri e corruzioni. Nel suo tritarifiuti, tra le altre cose, sono finiti i treni poco sicuri, i finanziamenti europei, gli stipendi spropositati dei politici, le privatizzazioni. Di tutto, insomma. Ora, per la nuova stagione (che inizierà ad aprile), la sua squadra sta lavorando sui Fondi pensione, sul finanziamento pubblico ai partiti e tornerà su Bancopoli: l’intreccio che da Antonveneta passa per Bankitalia e arriva alla Unipol di Giovanni Consorte. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, è uscita una sua intervista a Giovanni Donigaglia, l’ex padrone della Coop Costruttori di Argenta, un’azienda in difficoltà che Consorte si è rifiutato di salvare. La sentenza gabanelliana è inesorabile: «Donigaglia e Consorte sono la doppia faccia del movimento cooperativo. Il primo (non esente da colpe) fa carte false per salvare posti di lavoro. Il secondo le mischia per ingrossare i suoi conti personali». Gabanelli, in generale che idea si è fatta dello tsunami che sta travolgendo il mondo politico-economico? «Credo che fosse in corso la spartizione del credito privato e per andare contro la massoneria olandese e spagnola ci voleva gente con qualche attributo in più».  solo un problema di attributi? «La partita è grossa e per farla franca non basta essere furbi. Bisogna anche essere capaci, e apparire con le mani un po’ pulite. Poi tutti sappiamo che il capitalismo non è nato da opere di beneficenza». Detta così pare quasi che se Ricucci & Co fossero stati più scaltri, le sarebbe sembrato tutto normale. Cinismo da cronista navigata? «Ognuno fa il proprio mestiere. Il mio rimane quello di denunciare chi non rispetta le regole». Parliamo di questo allora. Come nasce una reporter alla Gabanelli? «Ho iniziato a fare la giornalista per la tivù a 28 anni». Esordio tardivo rispetto alla media. Prima? «A 18 anni ho lasciato la mia famiglia che abitava a Desio, in Brianza. Mi sono trasferita a Bologna». Bologna anni Settanta. Il movimento, le occupazioni... «Li ho visti, ma non li ho vissuti. Con le femministe ho legato poco perché gli uomini mi andavano bene così com’erano e poi non portavo gli zoccoli. Per stare nei collettivi invece servivano convinzioni, e io ero piena di dubbi».  una superanomalia: in Italia quasi tutti i giornalisti che oggi hanno 50 anni negli anni Settanta erano straimpegnati e ora non lo sono più. Lei invece negli anni Settanta snobbava l’impegno e ora sembra la più impegnata. Che ci faceva allora a Bologna? «Studiavo storia del cinema e mi mantenevo con lavoretti vari. Ho fatto la hostess in Fiera, distribuivo buoni sconto. E poi scrivevo recensioni. Conservo ancora il primo pagamento della rivista Cineforum: un assegno da 5.000 lire». E il salto alla tv? «Volevo mandare al festival di Venezia un documentario pressoché incomprensibile sul regista francese Jean Eustache. Lo avevo girato in 16 mm e mi serviva una copia su nastro magnetico. Chiesi aiuto al direttore della Rai emiliana, Fulvio Ottaiano. Lui comprò il documentario e mi fece collaborare ai programmi regionali». Tra le persone che ringrazia nel libro/cofanetto Le inchieste di Report, c’è anche Gianni Minoli. Quando lo ha conosciuto? «Ho iniziato a bussare alla sua porta nel 1983. Si aprì cinque anni dopo. La mia vera storia professionale è cominciata lì. Vendevo alla Rai pezzi concordati con Minoli». Servizi di che tipo? «All’inizio reportage: sono stata persino sull’isola di Pitcairn dove vivono i discendenti degli ammutinati del Bounty. Poi cronache di guerra: ex Jugoslavia, Cambogia, Mozambico, Nagorno Karabah». Quando ha cominciato coi reportage aveva dei miti, dei maestri ideali? «Ettore Mo, il leggendario Egisto Corradi (firma storica del Corriere ndr.) e Tiziano Terzani. Il lavoro televisivo però era molto diverso». Chi le ha insegnato a fare tivù? «I miei stessi errori. Ma il suggerimento più prezioso me lo diede una giornalista di Mixer, Marcella De Palma. Le avevo mostrato un reportage sul narcotraffico nel Triangolo d’Oro di cui ero orgogliosissima. Lei lo stroncò, ma dai suoi consigli imparai a vedere il racconto». Durante questi viaggi hai mai rischiato la vita? «Credo di sì. Ma senza saperlo». In che senso? «Una volta mentre visionavo il materiale sulla Cecenia, ho sentito un colpo e ho visto un ramo cadermi di fianco. Mi è venuto un brivido. Perché quando avevo girato quelle scene non mi ero accorta che avevano sparato sopra la mia testa». Nello studio di casa Gabanelli a Bologna c’è una parete tappezzata di foto «dal fronte». Sono incastonate tra flauti e tamburelli di tutto il mondo. In tutte le immagini l’inviata è ritratta mentre stringe la telecamera. La leggenda vuole che Gabanelli sia una delle inventrici del video-giornalismo. davvero così? «Io non rivendico primati». Vabbé, ma come è diventata video-giornalista? «Ero a Belgrado. E la troupe che mi doveva seguire non è mai arrivata. Mi sono arrangiata con una piccola telecamera che mi avevano prestato e ho portato a casa il pezzo». Anche i suoi collaboratori di Report sono video-giornalisti. Come li ha scelti? «Bernardo Iovene, Sabrina Giannini, Stefania Rimini e Paolo Barnard avevano lavorato al progetto Professione Reporter, una trasmissione sperimentale andata in onda dal 1994 al 1996. E poi c’è il caso unico: Giorgio Fornoni. Si presentò da me nel 1999 con materiali straordinari sul traffico d’oro in Congo, le fabbriche di coca in Perù, i brogli elettorali in Angola, la caccia alle balene nel mar di Barents». Perché un caso unico? «Perché non era un giornalista. Faceva il commercialista in Val Seriana. Rimasi impressionata dalla capacità di intuire la notizia. entrato subito a far parte del nostro gruppo». Capita spesso che la gente venga da lei con informazioni per un’inchiesta? «Quasi tutti i giorni. Suonano al campanello di casa. Si avvicinano in treno: ”Ho una storia di cui si dovrebbe occupare”. A Roma, vicino alla sede Rai di via Teulada c’è l’ufficio di un giudice di pace. Quando passo di lì, qualcuno cerca di consegnarmi i fascicoli del suo caso». Effetto Gabibbo. Per molti la sua trasmissione è uno dei pochi luoghi dove si fa ancora giornalismo. Ne andrà fiera. «Noi non facciamo nulla di eroico. Evidentemente c’è una necessità che rimane inascoltata. La tv fa poco servizio pubblico, mentre sui giornali ci sono più inchieste e approfondimenti». I giornalisti che legge più volentieri? «Gian Antonio Stella, Luigi Ferrarella, Fabrizio Gatti, Peter Gomez e Gianni Barbacetto sono i miei preferiti». Della tivù chi salva? «C’è molta gente capace. Più di quel che si crede. Penso a Giovanna Botteri e Maria Cuffaro». Tutte giornaliste della parrocchia di Rai3. «Mi piacciono anche Toni Capuozzo, Corrado Formigli, Monica Maggioni, e molti altri che fanno programmi di nicchia confinati in orari improbabili». C’è un po’ di snobberia in questo giudizio. «Diciamo che non amo i varietà che iniziano alle nove di sera e finiscono all’una di notte». Torniamo a Report. vero che le riunioni principali si svolgono nella sua casa di Bologna? «Sì. Riusciamo a radunarci tutti insieme un paio di volte all’anno. Con i singoli autori dei pezzi invece c’è un contatto quotidiano. E ci incontriamo spesso». A casa sua? «Abitiamo in città diverse. Casa mia è geograficamente più comoda. E poi a Roma ci resto poco volentieri». Perché? «Trovo che l’atmosfera dei palazzi Rai sia opprimente. Lì molti pensano che non si possa fare nulla senza intrighi, beghe di corridoio e coperture eccellenti. Sono convinti che la vita del pianeta sia gestita dal Direttore Generale». Quindi le puntate di Report nascono nella sua casa bolognese? «Funziona così: si decide insieme quale caso trattare e come procedere. Poi ognuno gira il pezzo per conto suo e se lo monta sul proprio computer. Io faccio la supervisione. Ci prendiamo tutto il tempo che serve, anche perché non ci possiamo permettere di sbagliare». Paura delle querele? mai stata condannata? «Finora no. Ma ci sono una decina di procedimenti pendenti». Il più pesante? «Quello delle Ferrovie dello Stato. Hanno chiesto un risarcimento di 26 milioni di euro. Il servizio sulla sicurezza dei treni è stato quello che ci ha creato più problemi. Anche perché sono stati licenziati quattro macchinisti che non avevano impedito alla nostra giornalista Giovanna Corsetti di riprendere una serie di malfunzionamenti». Quattro licenziati per colpa vostra. Il gioco vale sempre la candela? «Se lavori su fatti oggettivi, direi di sì. una domanda da porsi sempre, ma con cautela, altrimenti passi al varietà o ai programmi di costume». Con il ministro Carlo Giovanardi ha avuto uno scontro durissimo a causa di un servizio sull’azienda Cremonini. Pensa mai che prima di andare in onda dovreste aspettare di più la versione dei fatti delle aziende o delle istituzioni su cui stavate indagando? «Con Cremonini abbiamo aspettato una settimana. In altri casi fino a 3 mesi e poi la risposta non è mai arrivata. Di solito chi accetta il confronto te lo dice subito, chi lo rifiuta temporeggia e poi ti manda la lettera di un avvocato con diffida». Anche l’ex ministro Giuliano Urbani vi ha portato in tribunale. Non sembra avere un buon rapporto con la politica. «La tengo il più lontano possibile. Quando al governo c’era l’Ulivo ci hanno detto che eravamo di destra. Ora che siamo quei comunisti di Rai3». Una cosa che non le è piaciuta del governo ulivista e una che non le piace del governo Berlusconi. «Il centrosinistra ha fatto finte privatizzazioni: ora ci sono monopoli privati e lo Stato è più povero». E la Casa delle Libertà? «Il centrodestra approfitta della naturale tendenza del Paese all’illegalità per legalizzarla: condoni, parlamentari condannati che restano in carica. I politici dovrebbero essere moralmente irreprensibili». Le è mai stata offerta una candidatura? «Qualcuno mi propose di fare il sindaco della Lega in un paesino del Veneto. Rifiutai» Lilli Gruber, Fabrizio Del Noce, Piero Badaloni, Alberto Michelini. Altri giornalisti non si sono fatti problemi a fare politica. «Ognuno è libero di fare quello che vuole». Però lei ha polemizzato con Michele Santoro. «Quando è andato ospite da Celentano avrei preferito non lasciasse ai telespettatori il dubbio che si diventa politici se non si ha di meglio da fare. Ma il suo è un caso particolare. A lui hanno chiuso un programma. Non lo metterei sullo stesso piano degli altri». Ha avuto da ridire anche con il sindaco di Bologna Sergio Cofferati. «Speravo che desse subito un segno di cambiamento. Invece non lo ha dato. E, per esempio, come tutti i predecessori ha comunicato la sua squadra di governo solo dopo le elezioni».  la prassi. Succede anche a livello nazionale. «Infatti mi piacerebbe che la squadra dei ministri venisse comunicata in anticipo». Sogna. «La differenza fra la democrazia e un regime è la trasparenza, e il destino di un Paese non deve essere deciso durante cene private». Avete mandato in onda una puntata sugli stipendi dei politici. Proteste? «Hanno detto che facciamo del populismo. Noi. Loro fanno il doppio lavoro, disertano l’aula e godono di una busta paga tra le più alte del mondo. Per non parlare dei doppi e tripli incarichi». Tutto consentito dalla legge. «Le leggi le scrivono loro. Mi piace ricordare quello che ci disse durante l’inchiesta il compianto Renzo Imbeni europarlamentare dei Ds: fare il deputato o l’europarlamentare è un impegno che ti prende ogni secondo della vita. Se li fai tutti e due contemporaneamente vuol dire che fai male sia l’uno che l’altro». Pensa a qualcuno in particolare? «Il primo nome che mi viene in mente è Clemente Mastella: deputato, leader di un partito, vicepresidente della Camera, Sindaco di Ceppaloni, Presidente per gli affari del personale a Montecitorio. Prima era pure europarlamentare». Vittorio Zincone