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 2006  febbraio 02 Giovedì calendario

Cragnotti. La Stampa 2 febbraio 2006. Roma. Nonostante il grande crac, le luci della ribalta spente, lo stadio vuoto, il Cragnotti pensiero è sempre lo stesso: meno regole ci sono e più le cose funzionano

Cragnotti. La Stampa 2 febbraio 2006. Roma. Nonostante il grande crac, le luci della ribalta spente, lo stadio vuoto, il Cragnotti pensiero è sempre lo stesso: meno regole ci sono e più le cose funzionano. Calcio o finanza che sia. Il tavolo del suo studio, nel centro di Roma, è ricolmo di carte della Cirio. Qualche foto della Lazio. I figli Elisabetta e Massimo al suo fianco. Con il cane Bobo, in onore di Vieri, l’unico che si fa sentire. «Io rimasi sorpreso. Il fallimento della Cirio non è una storia esclusivamente economica e finanziaria. E’ stata una guerra politica, l’inizio dello scontro tra Fazio e Tremonti che nell’ultima estate ha avuto un revival decisivo». Fa la vittima del sistema? «Professionalmente era abituato al modo di operare sui mercati internazionali. Avevo già avuto problemi con un bond emesso all’estero dalla Bombrill. In Inghilterra abbiamo fatto un’assemblea con i rappresentanti dei bondholder e nel giro di poco tempo abbiamo trovato una soluzione: rinvio di sei mesi. Il comportamento del sistema italiano nei confronti della Cirio è stato puerile. Poca economia e finanza e troppa politica. Portando la Cirio a Roma, ho cercato di dare qualcosa in più ad una città che era ed è solo politica». L’esperienza della Ferruzzi, altro grande crac italiano dove la politica era entrata a piedi pari, non le aveva insegnato nulla? «A quei tempi l’Italia aveva altri punti di riferimento. C’era Cuccia che aveva organizzato la ristrutturazione e aveva saputo dare ad ognuno la sua parte. Le banche ne uscirono bene, senza gravi danni». Cuccia l’aveva ribattezzata la «fattucchiera». «Quel soprannome io l’ho sempre interpretato in maniera positiva. Era Gardini che parlava di me con Cuccia, della mia capacità di spuntare prezzi maggiori rispetto a quelli valutati dal presidente di Mediobanca. Più maga che strega insomma. Come quella volta della vendita della Standa a Berlusconi». Come andò? «Berlusconi aveva offerto 600 miliardi. Io ero in contatto con Auchan che voleva venire in Italia e aveva offerto 900 miliardi. Telefonai a Gardini per dirglielo. Alla fine Berlusconi alzò l’offerta pareggiando quella francese. Dovetti inventarmi con i vertici di Auchan che il ministro italiano non voleva vendere agli stranieri. Berlusconi poi un po’ se la prese, ma quello era un prezzo di mercato». Con la Cirio è finita male. E’ accusato di aver fatto poca industria e troppe alchimie finanziarie. «C’era all’interno della Cirio un progetto industriale che iniziava con l’acquisto di Del Monte, che avvenne nel 2001». Marchio giallorosso che finì sulle maglie biancazzurre della Lazio. «E ci portò bene. Con quello sponsor vincemmo la Coppa delle Coppe contro il Maiorca di Cuper a Birmingham». Torniamo al crac. «E’ stato uno dei tanti esempi della stravagante separazione assoluta tra industria e finanza tipica dell’Italia. Avevo un progetto di medio lungo periodo e a novembre 2002 sono stato abbandonato. I bond servono per finanziare le imprese in tempi lunghi. E questi erano i tempi della Del Monte, che avrebbe portato sui mercati internazionali l’agroalimentare italiano». I debiti però erano pesanti. «Non più di altre realtà. Come hanno detto anche i commissari attraverso gli organi di stampa tutto il gruppo, in sede di liquidazione, vale tra i 700-800 milioni di euro. In condizioni normali quindi poteva valere anche di più. I bond, che poi erano quasi tutto il debito, avevano toccato un ammontare di 1,1 miliardi. Il patrimonio per garantire l’indebitamento quindi c’era. Se non fossi stato in grado di pagare tre o quattro bond, il discorso sarebbe stato diverso. Ma alla prima scadenza è inconcepibile. In Italia ora si va avanti all’insegna del ciascuno per sé e Dio per tutti, senza progettualità, senza unità, con troppe divisioni. Lo ripete continuamente anche Ciampi, che evidentemente è preoccupato». L’opinione pubblica rimase colpita perché quelle obbligazioni Cirio erano finite nelle tasche di migliaia di piccoli risparmiatori. «Io non ho partecipato a questa truffa. Nei prospetti era scritto nero su bianco che i bond non potevano essere venduti ai risparmiatori. Era proibito. Era scritto che servivano per la Del Monte e per altre operazioni del gruppo. E infatti oggi le banche sono chiamate in giudizio». Come giudica Fazio? «Lo difendo. O meglio difendo l’idea di Fazio che voleva preservare il sistema italiano dall’invasione straniera. In cuor suo sono convinto che ritenesse l’attacco pericoloso». Adesso siamo in Europa, c’è il libero mercato. «E’ vero ed è una realtà con cui si deve fare i conti. Ma se nel sistema bancario italiano arrivano gli stranieri spazzano via il 50% delle imprese. Perché, prima di prestare i soldi, cominciano chiedere i parametri, a fare le pulci. E il sistema industriale potrebbe saltare». Il sistema, chiamiamolo il salotto buono dell’economia e della finanza però si è scagliato contro Fazio. «Devono spiegarmi il perché. Ha fatto solo il loro interesse. Perché molte imprese si sono salvate e vanno avanti grazie ai finanziamenti delle banche, ma solo di banche italiane. Basta vedere i casi, in grande, di Fiat, Telecom, Benetton che magari avrebbero meno problemi con gli stranieri. Ma molti piccoli e medi si troverebbero in crisi». Insomma i cosiddetti «furbetti» erano ispirati da un nobile ideale? «Attenzione, io difendo l’idea di Fazio, non i furbetti, come li chiama lei. Perché, come al solito, non c’era una strategia, un piano condiviso a livello di sistema italiano. L’idea di Fazio era giusta ma la tattica è stata sbagliata anche se credo che Fazio non sapesse dei maneggi. C’è stata improvvisazione e allora chi voleva speculare ha trovato terreno facile». Ha mai conosciuto Fiorani? «Quando avevamo la Polenghi e la banca della zona era la Popolare Lodi. Mi sembrava un manager valente e dinamico». E Ricucci? «Solo in tribuna allo stadio, da tifoso della Lazio veniva a salutarmi». Cosa ha fatto in questi anni oltre che organizzare la sua difesa? «E’ stato un tracollo duro, violento. Ho provato molta malinconia. Ho dedicato gran parte del mio tempo, anche perché non potevo fare altro, a riordinare le idee per capire. Per questo mi è servito stare in luoghi isolati, in campagna. Ho dovuto cercare la forza per venirne fuori, per occuparmi della mia famiglia». Qual è l’errore più grande che ha fatto? «Tornare in Italia. Credevo di avere un valore aggiunto. Non sono riuscito a trasmetterlo». E’ stato un «potente». Il calcio, la finanza. Probabilmente, come accade in Italia, strariverito. Di quei tempi, chiamiamoli d’oro, chi si fa ancora sentire? «Nessuno. Da un giorno all’altro. Il mondo del calcio è sparito. Alludo al palazzo, ai dirigenti: tutti scomparsi. L’unico che si fa sentire è Bobo Vieri. Anche i tifosi mi sono rimasti vicino. Non parliamo poi degli ambienti finanziari. Ma lo capisco, adesso stiamo accusandoci l’uno con l’altro». Le piace il calcio di adesso? «E come può piacermi? Siamo tornati indietro di dieci anni. Non esiste al mondo un distacco così abissale tra prima e ultima. Ma anche nel calcio il discorso è lo stesso dell’economia. Non si vuole, tranne poche eccezioni, la mentalità imprenditoriale. Oggi è un calcio sociopolitico: venti squadre, bisogna accontentare la Sicilia, la Calabria, tante squadre al Sud tante al Nord. Si parla di politica, di polizia. Se vogliamo questo calcio andiamo avanti così. Altro discorso è il calcio come spettacolo, come un grande teatro. E allora ci vogliono i progetti imprenditoriali». Lei è stato uno dei presidenti che hanno pompato i costi. «Ma se si vogliono i campioni, se si vuole il grande teatro, se si vuole vincere, se si vuole la Champions dove ci sono i soldi veri bisogna spendere. E’ chiaro che con i giocatori e i metodi tradizionali, i conti non torneranno mai. I prezzi erano troppo alti e c’era il problema dell’ammortamento, della svalutazione in pochi anni di cifre enormi. Io avevo proposto di fare quattro società distinte: una per i calciatori, una per i diritti tv, una per l’immobiliare e l’altra per il marketing. Nel consolidato i numeri sarebbero stati positivi. La Lazio sarebbe ripartita subito e così anche altre squadre. La proposta venne bocciata dalla Federcalcio. In Italia ci sono solo controlli, obblighi, conflitti di interesse, divisioni. Non si riesce ad innovare. Gli stadi sono troppo grandi, non si vede niente. Ma non si riesce a cambiare». Diritti tv, lei è per la collegialità o la trattativa soggettiva? «Il problema è un altro. E’ il monopolio. Il mercato è controllato da Murdoch e Mediaset. Noi con Fiorentina, Parma, Roma e Telecom avevamo creato Stream. E tutti votarono per la contrattazione soggettiva perché c’era la concorrenza. E poi siamo sempre allo stesso punto. E’ una questione di competenze. Berlusconi capisce di tv. Zamparini grida e chiede più soldi. Vince sempre Berlusconi». Si riconosce in Della Valle? «Ognuno ha il suo temperamento, comunque fa bene a difendere il suo territorio». Cragnotti, Tanzi, Cecchi Gori: tutti ingoiati nel giro di pochi mesi. Un caso? «Credo di sì. Le storie sono completamente diverse. Tanzi era più uomo delle istituzioni, più legato alla politica. Forse qualche affinità in più l’avevo con Cecchi Gori». Ma le tasse la Lazio le ha pagate o no? Lotito si lamenta che ha trovato un buco enorme e inaspettato. «A dicembre 2002 il debito con il Fisco era di 40 milioni, il totale netto dei debiti era a 200. Il 30 giugno 2003 c’è stato anche un aumento di capitale. Poi dopo, quando io non c’ero più, le tasse non pagate sono salite a 150 milioni. Questi sono i numeri». Federico Monga