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 2006  febbraio 08 Mercoledì calendario

Salgari, Goethe Erasmo: plagiare è un’arte. La Stampa 8 febbraio 2006. Il caso è poco noto, perché se ne discusse ottant’anni fa, ma si sa che persino l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, il grande umanista cinquecentesco, deve molto, forse troppo, all’opera oscura di un poeta romagnolo, Faustino Perisauli, autore di un De triumpho stultitiae

Salgari, Goethe Erasmo: plagiare è un’arte. La Stampa 8 febbraio 2006. Il caso è poco noto, perché se ne discusse ottant’anni fa, ma si sa che persino l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, il grande umanista cinquecentesco, deve molto, forse troppo, all’opera oscura di un poeta romagnolo, Faustino Perisauli, autore di un De triumpho stultitiae. Non solo temi, ma intere frasi. Ne parlò Giovanni Papini negli Anni Trenta, ormai forse è acqua passata, curiosità antichistica. Che i libri riprendano e ripercorrano instancabilmente altri libri, e che la catena tenda all’infinito lo sanno tutti, non è motivo di particolare scandalo. Goethe, per dire un signore che su ogni cosa aveva un’idea molto precisa, scrisse in una delle sue Massime (la 1146): «Che cosa vuol dire poi inventare, e chi può dire di aver inventato questo o quello? Così anche è in genere una vera stoltezza fare storie di priorità; giacché è solo per inconsapevole presunzione che non ci si vuole riconoscere onestamente come plagiari». Emilio Salgari, come ha scoperto di recente Ann Lawson Lucas, italianista del’Università di Hull, in Gran Bretagna, prese questa affermazione talmente alla lettera che firmò con due diversi pseudonimi Le caverne dei diamanti (1899) e Avventure fra le Pellirosse, l’anno successivo, copiati quasi per intero da altrettanti romanzi stranieri. Ma il povero scrittore aveva un disperato bisogno di denaro per curare la moglie. Perdonato. Anche perché la letteratura moderna, difficoltà economiche a parte - quelle non finiscono mai -, cita instancabilmente, ora per allusioni ora in modo palese. Come in un celebre racconto di Borges, siamo al paradosso di Pierre Menard, l’immaginario scrittore francese che riproduce alla lettera due capitoli del Don Chisciotte ma partendo da un punto di vista per così dire autonomo, da un’idea diversa e tutta sua. Il Tolstoj che si è infilato nelle pagine di Vita, trasformando per un certo tratto del suo romanzo l’autrice in una sorta di ventriloquo, non sarebbe altro dunque che l’ennesima manifestazione della potenza di un mondo di fantasmi. Uno scherzo della memoria: questo almeno ha detto ieri Melania Mazzucco alla Stampa, commentando la scoperta di Claudia Carmina, la ricercatrice siciliana che ha trovato lo scrittore russo (nella traduzione di Pietro Zvetermich per Garzanti, 1989) in un capitolo dell’autrice italiana. Ma l’aspetto più curioso dell’intera vicenda è un altro: in quattro anni da che è uscito Vita, libro ammirato, molto letto, tradotto e premiatissimo (vinse lo Strega nel 2003) nessuno se ne era accorto, salvo la ghostbuster di Palermo. Ma è così difficile dare la caccia ai fantasmi? «Quando si travestono da Strega, sì» scherza il francesista Giuseppe Scaraffia. Poi parlando seriamente (seriamente?) enuncia quattro punti a sostegno della tesi che «il plagio è un primato morale e civile degli italiani». Eccoli: «1) è una prova della loro cultura, perché bisogna avere letto per potere copiare; 2) è una prova del loro rispetto per chi copiano, infatti le loro alterazioni al testo riprodotto sono minime; 3) è una prova della loro superiorità alle mode effimere come il postmoderno che rivendicano il diritto alla copia, e quindi, 4), è una prova del loro gusto del rischio... di essere scoperti». Più cauto Marco Santagata, in cui convivono lo studioso universitario e lo scrittore (L’amore in sé, edito da Guanda, è il suo recentissimo romanzo sul canovaccio di una poesia del Petrarca): secondo lui è sempre molto arduo, anche per un lettore avveduto, inseguire il gioco di citazioni e parafrasi. «Se non ci sono segnali che ti mettono in guardia - ci dice -, è davvero difficile. Nel caso di Guerra e pace, poi, lo è ancora di più perché si tratta di un testo che uno ha in mente a grandi blocchi, non pagina per pagina». Ma lei come si comporta, nei romanzi? «Mi piace mettere citazioni camuffate; anzi arrivano da sole, è un fenomeno spontaneo». E vengono riconosciute? «Mai. Anzi, mi vengono attribuiti spesso riferimenti a testi e autori cui non avevo minimamente pensato, non a quelli invece cui ho fatto riferimenti intenzionali. Credo sia esperienza comune un po’ per tutti». Detto questo, crede alla spiegazione che ci ha dato ieri Melania Mazzucco? «Credo sia vero quel che ha scritto Orengo, e cioè che si tratta probabilmente di un gioco allusivo, come un invito al lettore. In realtà, penso che non si debba attribuire troppo peso alle dichiarazioni degli autori, ma basarci su quello che scrivono». Chi ha qualche dubbio in più è l’italianista Giulio Ferroni, che invece ritiene impossibile una memoria tolstojana di questo genere, un fantasma appunto che viene da lontano a passi silenziosi. «Dopodiché si è sempre fatto, e queste frasi di Guerra e pace non pregiudicano certo il valore di Vita. Però forse conveniva citare in qualche modo la fonte». Ci dica, professore, è stato opportuno aver sollevato il caso, o siamo già nella deprecata informazione-spettacolo? «Si tratta di dati oggettivi, quindi legittimi. E poi, forse la vera notizia è persino un’altra: e cioè che a Palermo una giovane ricercatrice legge i testi in profondità. Questo davvero mi pare molto incoraggiante: le giovani leve lavorano seriamente». Mario Baudino