Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  febbraio 09 Giovedì calendario

Il vento del Nord che ha sconvolto Roma. La Stampa 9 febbraio 2006. Quindici anni di Lega Nord e Bobo Maroni fatica a ricordare

Il vento del Nord che ha sconvolto Roma. La Stampa 9 febbraio 2006. Quindici anni di Lega Nord e Bobo Maroni fatica a ricordare. «Dov’eravamo per il congresso di fondazione?». In un residence di Pieve Emanuele, appena fuori Milano, era una domenica di neve gelata. Quando Umberto Bossi riuscì a metter d’accordo lombardi e veneti, piemontesi e liguri, furlani e triestini. Era già senatore, allora, ma fuori dai suoi confini pochi lo conoscevano e ancor meno avevano voglia di capire. Un «barbaro» lui, e «razzisti» quelli che lo seguono, gli stessi che scrivono sui muri «Forza Etna! Avanti Vesuvio!», «Viva el Leon che magna el teron!». E finiva lì. Troppo semplice. E invece doveva ancora cominciare. La Lega Lombarda aveva già sette anni, l’incontro tra Bossi e la politica almeno dieci. «Era il ’79 - ricorda Maroni - facevamo un giornale che si chiamava Nord Ovest, ci battevamo per l’autonomia delle provincia di Varese e di Como». Maroni era il presidente della cooperativa editrice e i debiti se li ricorda tutti. «Ma un giorno la nostra gente terrà la tua fotografia sul comodino», gli diceva Bossi nelle notti passate ad attaccare i primi manifesti sotto i ponti della Milano-Varese. «Quante fughe, con la colla che si rovesciava in macchina e la polizia che c’inseguiva...». La Dc li vide crescere Quindici anni da festeggiare, per i leghisti. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla loro sorte, a partire dalla vecchia Dc che li aveva visti crescere a Varese, Bergamo, Pavia, Alessandria, Novara, Biella, Cuneo, Treviso, Vicenza, Padova. Il Centro Studi della Dc lombarda aveva concluso che sarebbero durati non più di 7 anni. «Come la lista del ”Melone” a Trieste, poi verranno riassorbiti dal sistema dei partiti». Achille Occhetto, allora segretario Pds, nell’autunno ’91 a Brescia: «Nelle fabbriche non ne ho sentito parlare, spariranno». E due giorni dopo la Lega sarà il primo partito di Brescia. Gli anni di Bossi che beve chinotto, fuma tre pacchetti di Marlboro al giorno, di notte guida la sua Citroën, 100 mila chilometri da gennaio a dicembre. Gli anni dei piemontesi Farassino e Comino, dei veneti Rocchetta e Marin, dei lombardi Castellazzi e Magri e Moretti. Gli anni del dialetto parlato da Giuseppe Leoni in consiglio provinciale a Varese, e che scandalo. Da quattro anni Bossi fa il pendolare con Roma, in Senato: «Vado giù per studiare e imparare». Se lo fila nessuno, spesso lo confondono con il socialdemocratico Bissi e solo l’altoatesino Roland Ritz qualche sera se lo porta a cena. Avanti e indietro, dal venerdì al lunedì un comizio ogni sera. «E chi veniva a sentirmi diventava la mia radiolina a transistor», ha ricordato Bossi, «valeva più un mio discorso in piazza che una pagina di giornale». Le radioline hanno lavorato bene se nel congresso di Pieve Emanuele nasce la Lega Nord, e quella sera Bossi era felice e commosso al bar del residence. Attorno brindavano a spumantino e lui: «Un chinotto». Perché per festeggiare, come nella notte dell’87, quando era stato eletto senatore, ci vuole un chinotto. Gli anni della cravatta, dell’autista e della Coca-Cola devono ancora arrivare. Più che a Pieve Emanuele la Lega Nord è nata nelle pizzerie, sui tovaglioli di carta dove Bossi disegnava grafici, frecce che salgono, scendono e si spostano. Aveva tutto chiaro già alla fine dell’80, quando Maroni torna dal servizio militare, paga 8 milioni per sanare i debiti e ritrova Bossi sempre più convinto. Un’altra pizzeria, un altro tovagliolo e le caselle da occupare sono i consigli comunali, i consigli provinciali, i consigli regionali e almeno una presenza alla Camera e al Senato. «Poi ci metteremo assieme, la Lega Nord!, e scrolleremo l’albero: perché i frutti cadono solo quando sono maturi». Primo partito in Lombardia La politica o li ignora o li sfotte, i giornali idem. Ma fa un certo effetto rileggere quel che Bossi aveva disegnato al tavolino di un bar vicino alla Stazione Centrale di Milano il 15 giugno ’87, la sera della sua elezione al Senato. La biro, il tovagliolo di carta, il chinotto e la sua scommessa: «Alle prossime regionali diventiamo il primo partito del Nord, alle prossime politiche porto a Roma 80 parlamentari, alle prossime amministrative ci prendiamo il sindaco di Milano. Perché i frutti cadono quando sono maturi...». Come un mago e più di un mago ci aveva preso in tutto. «Perché io la conosco la mia gente». Conosce ancor meglio i suoi leghisti, sa di potersi fidare, però non troppo, non alla cieca. E così, com’era capitato al cognato Pierangelo Brivio espulso e buttato di peso in un cassonetto della spazzatura, cominciano a cadere le teste di chi è sospettato di tradimenti o strane idee o pessime alleanze con «i partiti di Roma». Uno spadone spietato Comincia un elenco che sarà lunghissimo, dal lombardo Castellazzi fino al veneto Rocchetta, al piemontese Comino, e poi Formentini, l’ex ministro Vito Gnutti, Irene Pivetti, il professor Miglio. Lo spadone di Bossi è spietato, anche se a distanza di anni si mostrerà dispiaciuto. Per pochi. Il 1992 per la Lega Nord è l’anno del formidabile debutto elettorale. A Roma calano i «barbari», e sono proprio 80. C’erano Bossi e Maroni, Castelli e Calderoli. «Ho rivisto una nostra foto di quel periodo - ricorda Castelli -, in Parlamento siamo rimasti in otto...». Quelli della foto si erano dati appuntamento agli arrivi di Fiumicino, e poi in comitiva, il tesoriere Patelli davanti a tutti con il dito alzato come una guida giapponese, in trenino fino alla stazione Ostiense e sull’autobus dell’Atac fino a piazza Montecitorio. «Mi raccomando - li aveva avvertiti Bossi - attenti a non cedere a Roma ladrona». I mesi del cappio in Parlamento, delle manette, delle monetine a Bettino Craxi e della Prima Repubblica che svanisce tra le risate dei leghisti. Si voterà due anni più tardi, Bossi è dato per vincente, il Nord è già suo e invece capita l’accidente, il tesoriere Patelli che finisce in cella, la vicenda dei 200 milioni presi da Carlo Sama in conto Montedison, insomma anche la Lega sta che nel mazzo tangentaro? Uno diffidente come Bossi capisce che la politica sta per esplodere e il nuovo che avanza si chiama Berlusconi. Si allea e i parlamentari saranno 180. Ma è alleato per forza, dura minga. Il ribaltone del ’95 «Se il tuo nemico è più forte di te devi fare come il pugile, ti aggrappi e lo trascini a terra». E’ con questa metafora che Bossi spiegherà il ribaltone del gennaio ’95. Otto mesi appena per il governo del Cavaliere, Bossi rinuncia a Maroni ministro dell’Interno, ad altri quattro ministri e 15 sottosegretari. Non gli piaceva dall’inizio quell’alleanza, aveva tentato un golpe subito dopo il voto mandando Maroni («una notte, a Bologna...») da Claudio Petruccioli, allora capo della segreteria di Achille Occhetto. La risposta è no. Otto mesi, Massimo D’Alema dice sì, e nascerà un’amicizia che ancora vale. Per Bossi e la Lega Nord, il nemico diventa fratello in un niente, e così può accadere anche al contrario. Basta una sua parola. Tanto, come diceva l’ex ministro Pagliarini «se mi garantiscono il federalismo io mi alleo pure con Pippo, Pluto e Paperino». L’ex parlamentare mantovano Uber Anghinoni era stato più diretto: «Anche con quel barracuda di Berlusconi». Che da Berluskaiser, Berluskatz, Mafioso di Arcore, uno «da appendere al gancio del macellaio», ora è uno dei pochi amici ricevuti a Gemonio, a casa Bossi. Un amico come lo è Giulio Tremonti, che ormai vede Bossi più dei ministri leghisti. L’11 marzo 2004 La secessione dell’estate ’95, la Padania, le Camicie Verdi, le elezioni del ’96, nel 2001 la nuova alleanza con la Casa delle Libertà basata sulla Devolution, le prossime elezioni con tre opzioni: se vincono federalismo fiscale, se perdono autonomia spinta, e se non passa il referendum di giugno sulla riforma costituzionale salta tutto. Ma la cavalcata di questi 15 anni, a ben guardare, si è fermata all’anno tredicesimo. A quell’11 marzo 2004, al coccolone che si abbatte su Bossi, lo allontana dai comizi e dalla battaglia, lo isola e lo imprigiona tra infermieri e cliniche, terapie e dolore, operazioni e badanti. Dicono che nella Lega non tutti volessero celebrare questi 15 anni, magari per non far ricordare a Bossi com’era e com’è, con la sua voglia di tornare frenata dalla malattia, la voce affaticata, il braccio fisso, le gambe malferme, una coperta sulle spalle o sulle ginocchia. Uno che vorrebbe fortissimamente farcela, ma non ce la fa e mette tenerezza. Ma guai a dirlo, tra i leghisti. Guai ad ipotizzare un futuro diverso, con un Capo che non sarà più quello di prima. Lo porteranno ai comizi, lo candideranno, lo voteranno. Perché sanno che senza Bossi non c’è Lega. E che questi 15 anni sono la sua storia. Giovanni Cerruti