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 2005  giugno 09 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 13 GIUGNO 2005

Il re Mida persiano e un popolo di ragazzini. Venerdì prossimo si vota in Iran. Vincerà Rafsanjani. Problema: il 70% degli iraniani è giovane e ama l’Occidente.

Venerdì prossimo gli iraniani voteranno per eleggere il presidente della repubblica. Due settimane dopo è in programma il ballottaggio (se nessuno raggiungerà il 50% al primo turno). Mohammad Khatami, presidente in carica, ha esaurito due mandati e non può correre per la terza volta. [1] In verità, la sua esperienza può dirsi conclusa già da un anno, dal trionfo dei «conservatori pragmatici» alle elezioni legislative. [2]

Otto anni fa il successo del riformista Khatami fu una sopresa. Nato nel 1943, per il popolo era il simbolo delle riforme che in molti, nel chiuso delle proprie case o sotto i chador, chiedevano da tempo. Ex ministro della Cultura costretto alle dimissioni nel 1992 e relegato a fare il direttore della Biblioteca nazionale, vinse con un inaspettato 70%. La sorella Maryam racconta che quando lo chiamò per fargli i complimenti, la nipote Leila le rispose che era già andato a dormire, tanto era convinto di perdere: «Che riposi tranquillo perché sarà la sua ultima notte di sonno». [3] Anche il Consiglio dei Guardiani ne aveva ammessa la candidatura solo perché pensava non avesse alcuna chance di vincere. Ma negli otto anni successivi l’ha ostacolato con ogni mezzo. Quando nel 2003 Khatami presentò due progetti di legge che avrebbero limitato il potere dei Guardiani, il Consiglio ne segnò la definitiva liquidazione: da allora gli è stato consentito solo di inaugurare qualche raffineria e di recitare la parte del presidente di fronte ai capi di Stato stranieri. [2] I suoi sostenitori più radicali l’accusano di non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo. Molti chiedevano una sua uscita di scena già prima delle presidenziali del 2001, quando ottenne il secondo mandato. [4]

L’uomo più importante d’Iran è l’onnipotente Khamenei. Classe 1939, ha cominciato gli studi religiosi ancora bambino. Tra i suoi maestri l’ayatollah Khomeini, con il quale ha condiviso le persecuzioni dell’epoca dello Scià e la lotta per affermare la repubblica islamica nel Paese. Ha fatto parte del Consiglio rivoluzionario fin dalla sua fondazione, nel 1979, ricoprendo sempre incarichi governativi di grande prestigio. Dal 1981 al 1985 è stato presidente (eletto con il 95% dei voti). Nel giugno 1989, alla morte di Khomeini, è stato nominato Vali-e Faqih (leader supremo della repubblica islamica). [5] I suoi seicento consiglieri e duemila delegati controllano gli apparati militari e paramilitari, gli spionaggi, le carceri segrete, la magistratura, il clero, la politica estera. Tutto ciò che conta tranne l’economia. I centri decisionali più importanti, formali e informali, sono però almeno undici. E il regime appare molto più fratturato di quanto vorrebbe il suo ordinamento. [6]
Dei 70 milioni di iraniani, due terzi hanno meno di trent’anni. Quasi la metà non arriva a 16. Khamenei non ha nulla da dire agli iraniani nati dopo la rivoluzione khomeinista: non è mai stato all’estero, non guarda tv satellitari, non sa nulla del mondo. Considera l’Occidente una sentina di vizi. un teologo, ma in quel campo è ora sovrastato dal grande ayatollah Sistani, che non ha devoti in Iran ma con la sua autorità incoraggia il clero a contestare il principio cardine del sistema khomeinista, l’idea che al vertice del Paese debba sedere un giureconsulto sciita scelto da altri sapienti della stessa fede. «Governare non è un nostro dovere, e se il popolo non vuole neppure un nostro diritto», cominciano a dire alcuni hojatolislam (i monsignori della gerarchia sciita). [6]

Gli iraniani possono leggere quello che vogliono. Le autorità sono pronte a chiudere un occhio, basta che non si contesti pubblicamente il regime. Chi lo fa, finisce tra le grinfie del procuratore di Teheran, il temutissimo Sayyd Mortazavì. Basso, ipocrita e furbo, è la perfetta rappresentazione d’un sistema bifronte: rappresenta lo Stato legale ma allo stesso tempo lo Stato parallelo, quello che ricorre ad arresti illegali, prigioni segrete e forme di tortura. Giornalisti e studenti che hanno avuto a che fare con lui lo descrivono come un ometto senza scrupoli, servile e subdolo. Il suo motto è: «Non ho bisogno della legge, io sono la legge». Consiglia di rinunciare alla difesa («Se al processo non c’è il tuo avvocato è meglio»), è clemente con chi accetta processi a porte chiuse (senza giornalisti). [8]

Il regime ha bene in mente l’iraniano medio che vorrebbe costruire. Si tratta di un consumatore che ha rinunciato ad essere un cittadino, un nazionalista che non può essere un patriota perché non può esercitare pienamente le libertà civili. Ma come consumatore già adesso è abbastanza libero [8]. Nei quartieri benestanti di Teheran si trova vino armeno in frigo, cd di film stranieri non autorizzati, paraboliche, feste sfrenate, lontananza dalla religione e dalla sua morale. La borghesia non dà più ai figli nomi islamici, ma persiani (Ciro, Dario, Serse), abbondano perfino i Maziar, come il seguace di Zoroastro che guidò la rivolta contro i conquistatori musulmani. Il regime ha un enorme problema di legittimazione. E un dilemma: se si mostra troppo brutale, la gente, già delusa dai ”riformatori” del presidente uscente Khatami, non vota, e allora le elezioni diventano un referendum contro il sistema. Se rinuncia all’uso illegale della forza, viene travolto. [6]

Nel 2001 l’affluenza fu del 66%. Secondo i sondaggi venerdì prossimo si aggirerà intorno al 50 [9]. Gli iraniani si sono appassionati alla politica finché hanno creduto che lo Stato islamico fosse riformabile, ma ora non tollerano più le messe in scena del regime, che teme i seggi elettorali vuoti perché ha bisogno di dimostrare all’esterno una certa misura di legittimazione. Agli uomini di Khamenei non mancano i mezzi per obbligare almeno una parte della popolazione ad andare a votare: l’anno scorso i dipendenti pubblici furono minacciati di perdere l’impiego se non avessero dimostrato di essere andati alle urne. [2]
I riformatori si presentano con due candidati. Nessuno dei quali sembra aver chance di essere eletto. Si tratta dell’ex presidente del parlamento e dell’ex ministro dell’Università: la loro candidatura era stata esclusa dal Consiglio dei Guardiani, ma poi sono stati ripescati per intercessione di Khamenei [6]. Naturalmente nessuno crede che i 12 membri del Consiglio, nominati per metà dallo stesso leader e per metà dal capo del potere giudiziario (lui stesso nominato dal leader), abbiano agito senza il consenso del Rahbar («la nostra Guida», questo il titolo di Khamenei). Una messa in scena, insomma, per far credere che l’ayatollah non è poi così cattivo [2].

Il principale candidato dei riformisti si chiama Mustafa Moin. Ha dovuto scegliere tra la protesta contro la semidemocrazia degli ayatollah e l’accettazione del paternalismo di Khamenei. Ha scelto la seconda, per salvare i riformisti dall’estinzione. I sondaggi lo mettono al terzo posto. Ha promesso che, se eletto, sospenderebbe il programma nucleare, ma tutti sanno che non ne avrebbe il potere. [11] Ha promesso anche che una volta eletto libererebbe i prigionieri politici e metterebbe fine all’abuso dei diritti umani. Un Windsteed curatore del blog iran-votes-2005.blogspot.com: «Dice che il futuro presidente dovrà lavorare per riportare in patria i nostri intellettuali fuggiti all’estero. Lui però è stato al ministero dell’educazione per sette anni e gli studenti sanno quanto è stato incoraggiante...». [7]

Lo scontro è in realtà tutto interno ai conservatori. Una vecchia guardia religiosa contro una nuova generazione di destra radicale e affarista (i neo-conservatori) [12]. I candidati fedeli alla Guida sono quattro. Rappresentano il tentativo di vendere un’immagine più accattivante, più giovane, d’una teocrazia dall’aspetto cupo e penitenziale. Si sforzano di apparire affabili, sorridenti, quasi ilari. Nessuno di loro appartiene al clero. Tutti sono giovani o giovanilisti. Tutti grossomodo populisti. Tutti inclini a parlare spesso di Iran, quasi mai di Islam. [6]

Dei quattro il più alto nei sondaggi è l’elegante Baqer Qalibaf. Ex capo della polizia. I suoi manifesti promettono «Aria nuova». Ha cominciato la campagna elettorale facendo sapere che «nove miliardi di merci di contrabbando entrano ogni anno in Iran attraverso porti e aeroporti sotto controllo ufficiale». Dovrebbe suonare, al popolo scontento e impoverito dalla corruzione, come una dichiarazione di guerra all’establishment, una sorta di Mani pulite alla persiana. In realtà pasdaran, polizia e parte dei vertici giudiziario e religioso sanno che di lui si possono fidare, e lo appoggiano. Anche se ora s’è messo a girare in jeans per piacere ai giovani, dei quali dichiara di comprendere l’aspirazione a una certa libertà nei costumi (come se George Bush dicesse di avere in simpatia i pacifisti). [1]

Quanto più il regime si allontana dalla sua vecchia identità, tanto più perde coesione. Non è riuscito a produrre una candidatura unica. Non ha scelto una direzione. Dopo cinque anni di discussione ha convenuto su un documento, «Prospettive per il prossimo ventennio», in cui si ripromette di cambiare per contenere la marea demografica. Ma la vecchia guardia è paralizzata dalla paura che tutto le scappi di mano. Il sistema appare sempre più un prodotto casuale, irrisolto: dentro il totalitarismo è cresciuta un po’ di democrazia; dentro l’internazionalismo che voleva esportare la rivoluzione islamica un’idea ”persiana” dell’interesse nazionale. [6]

Il documentario ”Povertà e prostituzione” sembra confezionato dalla Cia. Per screditare la Repubblica dei mullah. Invece è stato prodotto e massicciamente diffuso in video-cd dagli Hezbollah, l’ala islamica oltranzista e integralista, legata a Khamenei. Raccoglie le testimonianze di giovani donne tradotte a Dubai per soddisfare ricchi arabi, madri costrette a vendersi per strada a Teheran per sfamare e curare i figli, droga diffusa tra 4 milioni 300 mila iraniani. L’obiettivo della destra è doppio: il passato recente, cioè Khatami e i riformisti, e il futuro probabile, cioè Hashemi Rafsanjani, già due volte presidente dal 1989 al 1997, pronto a un terzo mandato all’insegna di una liberalizzazione economica che non intacchi le strutture del potere. [1] La stessa scelta di riammettere il candidato riformista Moin avrebbe questo movente: sottrarre voti a Rafsanjani, evitando che vinca al primo turno. [11]

Rafsanjani è un uomo per tutte le stagioni. 71 anni ad agosto, è interessato a mantenere il suo potere e le sue immense ricchezze. Attualmente guida il Consiglio per il discernimento, uno degli organismi di controllo cooptati dalla Guida suprema. Descritto a volte come grande affarista, a volte come l’uomo più influente in Iran dopo Khamenei, eminenza grigia del potere, politico consumato, si presenta come il pragmatico che normalizzerà le relazioni della Repubblica islamica con gli Stati Uniti e col mondo intero. [12] Rafsanjani accoppia sapienza islamica e abilità negli affari, così da meritare il doppio titolo di re del pistacchio e hojatolislam. [6]

I conservatori fedeli a Khamenei considerano Rafsanjani un opportunista. L’opposizione un personaggio sinistro. Gli occidentali non dimenticano le dichiarazioni forsennate che colorano la sua lunga carriera politica. Però s’è circondato di tecnocrati e anche molti che lo detestano, in Iran come a Washington, adesso sperano che diventi presidente. Un Mohammed Mohaddad di 26 anni: «Rafsanjani è un capitalista, ci porterà nel mondo globalizzato e normalizzerà le relazioni con gli Stati Uniti. Sono la maggiore potenza mondiale, dobbiamo farci i conti». [6]

Rafsanjani è troppo spregiudicato per non essere temuto dal suo rivale Khamenei. Il Leader ha più simpatia per il conservatorismo degli altri candidati che per il pragmatismo di Rafsanjani, ma questi ha una qualità che gli altri non hanno: viene considerato l’uomo più adatto a dissuadere gli americani dall’intervenire in Iran. Rafsanjani promette agli iraniani riforme sociali ed economiche. Ma che cosa si proponga veramente è difficile dire: nessuno ha mai potuto guardare nelle sue carte. [2]

Ogni anno 900.000 giovani iraniani entrano nel mercato del lavoro. Per creare milioni di posti e per ammodernare l’industria, il Paese ha bisogno di cospicui investimenti stranieri (17 miliardi di dollari l’anno). Poiché gli investitori sono in gran parte occidentali, la Repubblica islamica è costretta a venire a patti con gli Stati Uniti. Ufficialmente i «pragmatici» dicono che si tratta di salvare la rivoluzione khomeinista, non di certificarne il decesso. La chiamano la via cinese: repressione più liberalizzazione dell’economia. A Khamenei non piace. Sa che se divenisse presidente, Rafsanjani riprenderebbe il dialogo sotterraneo con Washington, magari con gli stessi Repubblicani con i quali vent’anni fa organizzò lo scambio armi-ostaggi poi divenuto lo scandalo Iran-contra. Nulla alla luce del sole, ma all’orizzonte apparirebbe, sia pure molto remoto, il Grand bargain, il grande baratto inutilmente cercato dall’amministrazione Clinton, in cui tutto sarebbe sul tavolo: Iraq, embargo americano, programma nucleare iraniano, accesso di Teheran all’organizzazione mondiale del commercio, ruolo iraniano nel conflitto arabo-israeliano. [6] Non è un caso che l’aiuto più sostanzioso Rafsanjani l’abbia ricevuto da Bush, che a fine maggio ha ritirato il veto americano all’ingresso dell’Iran nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. [13]