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 2006  febbraio 03 Venerdì calendario

Il ruggito degli anni ´60. La Repubblica 3 febbraio 2006. Quando a Roma Dino Risi iniziava a girare Il sorpasso e Giovanni XXIII aboliva i flabelli e Mina cantava Tintarella di luna e Germano Lombardi scriveva Barcellona, e "il Puma" faceva innamorare di sé le signore aristocratiche con un solo sguardo («A sight is just a sight», diceva la canzone) e anticipava il trionfo della Pop Art della Biennale di Venezia del 1964 e il marito e l´amante di un´autoritaria sovrintendente erano chiamati Palma il Vecchio e Palma il Giovane, e "il Brutto Addormentato nel Basco" e "l´Incantatore di Sergenti" e "l´Amaro Gambarotta" erano ancora vivi e lavoravano e Alberto Arbasino girava per Spoleto guidando una decappottabile, e preparando il romanzo del decennio, e si andava ancora nei vecchi posti come Rosati e nei nuovi, come «Le Colonnette» e da Milano arrivavano Volponi, Feltrinelli, Umberto Eco, e dal Veneto Comisso, sempre più terragno e contadino da sembrare una zolla di terra e Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani e Elio Pagliarani maltrattavano chi non scriveva nel linguaggio dell´avanguardia - un termine che aveva da poco compiuto cinquant´anni - e un noto meridionalista veniva sorpreso al ristorante mentre diceva soave alla sua ospite straniera: «Do you like finocchiona?» e Giorgio Franchetti, un molto intelligente collezionista e committente, uno dei pochi all´altezza di quelli dei secoli scorsi descritti in un celebre libro di Haskell, portava De Kooning e Klein a Bomarzo, per fargli vedere i mostri, in quegli stessi tempi Agnese De Donato, provocatoria bellezza meridionale, girava per il corso guidando gigantesche automobili di lusso, fornite da uno dei suoi mariti, sempre facoltosi, e incrociando Tano Festa, Achille Perilli e Giulio Turcato, che portava un maglione sopra il pigiama, e parcheggiava senza fretta davanti alla sua libreria aperta di recente, «Il Ferro di Cavallo», in via Ripetta 67

Il ruggito degli anni ´60. La Repubblica 3 febbraio 2006. Quando a Roma Dino Risi iniziava a girare Il sorpasso e Giovanni XXIII aboliva i flabelli e Mina cantava Tintarella di luna e Germano Lombardi scriveva Barcellona, e "il Puma" faceva innamorare di sé le signore aristocratiche con un solo sguardo («A sight is just a sight», diceva la canzone) e anticipava il trionfo della Pop Art della Biennale di Venezia del 1964 e il marito e l´amante di un´autoritaria sovrintendente erano chiamati Palma il Vecchio e Palma il Giovane, e "il Brutto Addormentato nel Basco" e "l´Incantatore di Sergenti" e "l´Amaro Gambarotta" erano ancora vivi e lavoravano e Alberto Arbasino girava per Spoleto guidando una decappottabile, e preparando il romanzo del decennio, e si andava ancora nei vecchi posti come Rosati e nei nuovi, come «Le Colonnette» e da Milano arrivavano Volponi, Feltrinelli, Umberto Eco, e dal Veneto Comisso, sempre più terragno e contadino da sembrare una zolla di terra e Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani e Elio Pagliarani maltrattavano chi non scriveva nel linguaggio dell´avanguardia - un termine che aveva da poco compiuto cinquant´anni - e un noto meridionalista veniva sorpreso al ristorante mentre diceva soave alla sua ospite straniera: «Do you like finocchiona?» e Giorgio Franchetti, un molto intelligente collezionista e committente, uno dei pochi all´altezza di quelli dei secoli scorsi descritti in un celebre libro di Haskell, portava De Kooning e Klein a Bomarzo, per fargli vedere i mostri, in quegli stessi tempi Agnese De Donato, provocatoria bellezza meridionale, girava per il corso guidando gigantesche automobili di lusso, fornite da uno dei suoi mariti, sempre facoltosi, e incrociando Tano Festa, Achille Perilli e Giulio Turcato, che portava un maglione sopra il pigiama, e parcheggiava senza fretta davanti alla sua libreria aperta di recente, «Il Ferro di Cavallo», in via Ripetta 67. E un giovanottino smilzo, editore di stupendi libretti di poesia a Milano, con il più bel logos dell´editoria italiana, le andava incontro per presentarle un vecchio emaciato con pizzo alla Balbo, come nel ´22 alla marcia su Roma, che era stato messo in una gabbia dai suoi compatrioti, in attesa di impiccarlo, ed era stato salvato da Hemingway e si diceva che fosse il più grande poeta del mondo. Sicuramente era il più pazzo. E Giancarlo Vigorelli, per niente commosso, diceva sarcastico: «Bisogna salutarlo con "Eja, Eja, Eja, Alalà?" ». Agnese, una bionda naturale che aveva i colori della meridionale e gli uomini faticavano a non metterle le mani addosso, solare e pratica, era arrivata da Bari poco tempo prima, senza sapere molto di Roma. Veniva da una famiglia benestante e borghese di ramo eccentrico, all´epoca abbastanza raro. Non credo che avesse letto Rocco Scotellaro, l´autore dell´Uva puttanella, indispensabile presenza in ogni libreria democratica pugliese e della Basilicata. Ma aveva dei genitori che in inverno, quando usciva fuori il sole, andavano a prelevare i loro figli a scuola per portarli sulla spiaggia e godere tutt´insieme del mare e della bella giornata. Verso la fine degli anni Cinquanta era ancora molto giovane, aveva preso il brevetto da pilota d´aereo, si era sposata tre volte e faceva una bella vita. Anche il fratello si era mantenuto su una linea di anticonformismo, diventando editore dopo un casuale incontro nella Sila con Fosco Maraini. Faceva l´avvocato, ma aveva lasciato i codici per pubblicare Segreto Tibet, uno straordinario libro sull´Asia, il primo di una gloriosa collana, con i soldi della vendita di una collezione di francobolli. E la sorella, anche se non era nata libraia e non aveva il temperamento del Cesarino Branduani - che nella sua libreria di Milano afferrava un testo fresco di stampa, lo annusava, leggeva qualche riga verso la fine, poi sentenziava: «L´è bun!». Oppure: «L´E´ sbaglià», e ci prendeva sempre - aveva deciso che aprire una libreria a Roma fosse una buona scelta. E subito le si affiancò Gina Severini, la figlia dell´artista, che veniva da Parí e le era stata presentata da Carlo Lodovico Bragaglia. La libreria venne inaugurata nel 1957, con l´insegna disegnata da Gino Severini, E quasi subito Agnese e Gina presero l´iniziativa, sconosciuta in Italia e copiata dalla libreria francese "La Hune" di presentare i libri appena stampati: «Vient de paraître». Fu l´inizio, per il Ferro di Cavallo, di un periodo ricordato da Agnese con un piccolo libro, pieno di fotografie così straordinarie e rievocative, che non sembra possibile che per quasi dieci anni uno spazio ristretto, gestito da una signora forestiera, che non aveva altro da offrire che la sua simpatia , sia stato il luogo privilegiato non d´incontri culturali - era anche questo - ma di persone che cercavano qualcuno che assomigliasse a loro. Come il luogo semplice e insostituibile di cui ha parlato con nostalgia uno scrittore americano: «Amavi i tuoi amici e quello era un posto dove potevi incontrarli ogni giorno». Roma era ancora padrona delle sue strade e le piazze, le fontane, i parchi, i lungotevere ombrosi, le trattorie con il pergolato, la campagna intorno con rovine, i Castelli freschi e riposanti, il mare a due passi con la rotonda e i krapfen che calavano fumanti dal dirigibile erano quelli di sempre, anche se il sacco edilizio di Monte Mario dava l´indicazione del futuro prossimo remoto. La notte si poteva passeggiare lungo piazza Navona rimanendo completamente soli e si sentiva l´eco dei propri passi riportato dai palazzi. E la vista dal Gianicolo, all´alba, era sempre quella preferita da Trevelyan, il grande storico liberale inglese, l´autore della trilogia su Garibaldi, che aveva ripercorso a piedi l´itinerario dei Mille. I primi ad arrivare in libreria erano dei giovanissimi architetti, con il nome che finiva in «ini». Purini, Staderini, Nicolini, seguiti dai pittori, che abitavano tutti nei dintorni e si mettevano a sfogliare libri con il bicchiere in mano, perché la libreria era il loro bar e facevano un po´ i propri comodi e portavano via libri in cambio di lavori che venivano accettati per educazione e poi messi da parte. Gli scrittori si facevano vedere nel pomeriggio e uno dei più disinvolti era Germano Lombardi, narratore di assoluto fascino e talento piegato dalla moda letteraria a scrivere come non avrebbe mai dovuto, e il più timido era Pasolini: gli tremavano le mani quando doveva leggere qualcosa. Non c´era una discriminante politica, anche se si dava per sottintesa l´appartenenza ad un´area di sinistra, ma scrittori come Giuseppe Berto potevano presentare i loro libri e trovare consensi imprevedibili. Molti si dichiaravano comunisti, anche se il comunismo cui facevano riferimento consisteva in nobili sentimenti di fratellanza che non avevano nulla che vedere con quello che accadeva oltre cortina e che non impediva a quelli che militavano, di comprarsi le stesse lussuose automobili di Agnese (e Flaiano, a chi gli chiedeva se era comunista, rispondeva: «Non me lo posso permettere economicamente»). Ed «essere comunista» più tardi significò solo che da giovane avevi avuto delle speranze e queste non erano completamente morte e peggio per le nuove generazioni: nel migliore dei casi, stavano sempre aspettando un autobus che non passava mai. Volendo trovare ad ogni costo un tratto comune che non fosse solo esistenziale per i frequentatori della libreria, si potrebbe indicare un certo ottimismo per le sorti progressive, che poi era lo spirito del tempo, per adoperare un parolone. Furio Colombo ha ricordato che Adriano Olivetti aveva infettato, benevolmente, della sua utopia, un certo numero di manager intellettuali o di intellettuali manager e c´era ancora la speranza di poter risolvere i problemi sociali con la matematica e la Olivetti importava teste pensanti che lavoravano ad un progetto di computer molto prima dei giapponesi. Poi morirono uno dopo l´altro, Olivetti e il progettista capo, un cinese, e il computer si arenò. Ma credo che gli echi di questa vicenda influissero poco o nulla, per dire, nelle abitudini di Turcato, o della maggioranza dei frequentatori. Il libretto di Agnese è uscito quasi negli stessi giorni della morte di Giorgio Franchetti e quelli che sono andati al funerale, almeno i più anziani, erano gli stessi seduti in una stanza della libreria Feltrinelli, in via del Babuino, ad ascoltare i ricordi di Agnese, di Valentino Zeichen e di altri. Quasi tutti non più giovanissimi, per adoperare un eufemismo, e non sempre riconoscibili. E mi sono ricordato di quello che diceva Plinio De Martiis che tornava dall´aver seppellito un amico: «Ti senti battere sulla spalla, ti rivolti e c´è un vecchietto con dei bellissimi occhi azzurri e pensi: ma questo cosa vuole da me e lui si presenta "Sono Gillo Pontecorvo". E dopo due o tre minuti, ti senti battere sull´altra spalla e questa volta è una vecchietta che ricorda qualcun´altra. Ma non ricorda, "è" qualcun´altra, e si chiama Franca Valeri. Eppure questi visi così invecchiati sono gli unici, reali, materiali legami con il passato. La Roma di oggi sembra così lontana da quella di ieri, così diversa da far pensare che quella che abbiamo conosciuto, come l´Asia di Prokosh o i boschi di querce in Provenza dell´Uomo che piantava gli alberi, di Jean Giono, era una Roma inventata». Stefano Malatesta